Corriere della Sera, 1 aprile 2023
Biografia di Alberto Cova raccontata da lei stessa
Alberto Cova, icona del mezzofondo italiano, allenarsi era più divertente o più faticoso?
«Entrambe le cose: divertente perché è stata una scelta di vita. Faticoso perché la fatica è necessaria per ottenere risultati».
La sua rivalità con Salvatore Antibo è stata paragonata a quella nel ciclismo tra Moser e Saronni.
«Se è per quello ce n’era una anche con Francesco Panetta. Eravamo tutti forti, con l’agonismo battevamo gli stranieri. Di Totò Antibo, comunque, sono amico».
Dicevano che in gara lei fosse un ragioniere: arrabbiato o orgoglioso per una definizione vagamente fantozziana, pensando al ragionier Filini?
«Orgoglioso, anche perché sono diplomato ragioniere: è l’altra fatica giovanile. La correlazione è tra gli studi e il modo di correre: pareva tutto calcolato, ma così non era».
Alberto Cova, però, era anche il Monsignore.
«Giorgio Rondelli, è vero, mi chiamava così».
Giorgio, un coach croce e delizia.
«Un grande personaggio, più avanti dei colleghi. Io l’ho sempre chiamato Dottor Jekyll e Mister Hyde, però non ho mai pensato di mollarlo: eravamo diversi, ma abbiamo sempre trovato la quadra».
Lei è nato in Brianza, terra di basket.
«E l’ho pure praticato, dai 10 ai 13 anni, nella squadra dell’oratorio: è stato il mio primo vero sport. Oddio, vero fino a un certo punto. Un insegnante di educazione fisica mi consigliò di puntare sull’atletica: aveva ragione».
Inizio duro, con tanti sacrifici.
«Mi alzavo presto, andavo in treno a Milano, dalle 9.30 a mezzogiorno mi allenavo alla Montagnetta. Mangiavo un boccone e andavo a lavorare da Mastropasqua, presidente della Pro Patria: quattro ore da ragioniere vero, poi di nuovo a San Siro e infine tornavo a casa. Fino alla vittoria dell’Europeo è andata così, poi sono diventato professionista e ho lasciato l’ufficio».
Oro europeo, mondiale e olimpico. Di fila. Per uguagliare il suo tris abbiamo aspettato 29 anni e il britannico Mo Farah.
«L’uomo si evolve ed è stato più complicato per gli atleti fare un “triplete” come il mio. Mo Farah ha vinto 4 ori in due Giochi, eguagliando Lasse Viren. È riuscito a ripetersi, invece io nella seconda Olimpiade, a Seul, non ce l’ho fatta».
Tutto in cinque anni. Non resta il rimpianto per non aver vinto di più?
«Altroché. Avrei voluto provare la maratona, mi ci sono dedicato a fine carriera e oggi le faccio assieme a mia moglie. Nel 1985 stavo per esordire, ma mi infortunai. Sfruttai la preparazione per vincere la Coppa Europa nei 5.000 e nei 10.000: la scelta era così fatta».
Rondelli voleva che sfondasse pure nel cross.
«Nel 1986 vinsi la Cinque Mulini, ultimo italiano a riuscirci. Giorgio era innamorato del cross e a me piaceva. Il problema era il fisico: in una campestre mi ritrovai contro Gelindo Bordin, robusto e muscolato. Contavo di riprenderlo, ma affondai nel fango. Perché vinsi quella Cinque Mulini? Perché quel giorno c’erano 20 gradi ed era asciutto».
Che cosa è correre?
«Un bel momento di libertà. Oggi è relax».
Nel Bergamasco le hanno dedicato un fan club.
«L’ha fatto Beppe Rota, personaggio straordinario. Ha le maglie di tutti i calciatori italiani e del mondo, io gli diedi una canotta e un paio di scarpe: così ha creato il club a Sovere».
Lei fa il motivatore dei dirigenti d’azienda.
«Non mi piace la parola “motivatore”: non si acquista la motivazione al mercato. Io offro piuttosto strumenti per valorizzare aspetti nascosti. Parlo sia a organizzazioni complesse sia ai singoli: il welfare aziendale altro non è che far coesistere al meglio le componenti di un gruppo».
«Con la testa e con il cuore» è il titolo del libro scritto con Dario Ricci: è la sintesi di Alberto Cova?
«Dico di sì. Tutto parte dalle nostre emozioni, dai sogni e dal cuore. Ma poi le emozioni vanno “messe a terra” e devono diventare concrete».
Gli africani nel tempo si sono presi l’atletica.
«Ai miei tempi erano pochi e non erano evoluti. I più forti erano gli etiopi, inquadrati militarmente. Quando l’Africa ha incontrato metodo, soldi e tecnologia ha trovato una miniera infinita. Ora i suoi atleti comandano perché hanno le qualità che avevamo noi, ma spalmate su vari personaggi».
Lei è stato l’incubo di due tedeschi dell’Est, Kunze e Schildauer.
«Non che mi sia dispiaciuto... La loro gara da incubo fu quella del Mondiale. Avevano speso tanto nella prima parte dell’ultimo giro e io faticavo a seguirli. Ma mentre si spegnevano, io continuavo con il mio ritmo e ad un certo punto pareva che andassi il doppio».
Quante volte ha risentito il «Cova, Cova, Cova» di Paolo Rosi?
«Se volete... accendo il registratore: me lo sento tutti i giorni. Paolo mi spiegò come andò: cominciai quella volata da quinto e lui non era sicuro che rimontassi. Ma tra i dubbi doveva anche fare il telecronista e l’unica parola che gli usciva era il mio cognome».
La mamma la voleva in banca.
«Era una sarta e mi aveva già preparato le giacche. Quando le dissi che avrei fatto l’atleta commentò: “Ma dovrai pur lavorare: che lavoro è l’atleta?”. Alla fine l’ha vissuta bene. Però quando nel 1980 tornai da Tokyo con la prima medaglia importante mi apostrofò: “Te se semper in’gir com’n strasc”. In dialetto lombardo mi diede del vagabondo».
Il Sessantotto: non si andava a scuola, ma lei poteva allenarsi.
«A Seregno c’era una forte presenza di sinistra in una città di destra: immaginate gli scontri. L’insegnante di educazione fisica, tale Bassi, maratoneta, mi esortava a portare con me le scarpe da ginnastica: “Se saltano le lezioni vai al parco a fare una sgambata”. Ottimo consiglio».
Qual è la vittoria perfetta?
«Quella olimpica è la più bella. Sognata e voluta. Tecnicamente voto quella del Mondiale: prima dell’ultima curva pensavo solo al bronzo, ma in una frazione di secondo non mi sono accontentato».
Quanto secca aver perso un titolo europeo contro Stefano Mei?
(sospiro) «Ancora oggi la ferita sanguina… Ma un metro dopo il traguardo ho fatto i complimenti a Stefano: prima non mi aveva mai battuto. Merito suo».
Non andavate d’accordo...
«Con Antibo c’era un agonismo da campo, con Stefano era pure verbale: poi i giornalisti hanno ricamato. Oggi comunque, dato che guida l’atletica, è il mio presidente. Che voto gli do? Sei. Deve badare a stare in sella, avendo mezzo consiglio contro, e non sta portando le novità promesse».
A casa ha una foto a fianco di Sandro Pertini.
«Per me ha un grande significato. L’hanno sempre definito il presidente tra i presidenti: io ero vicino a lui quando festeggiai l’oro di Los Angeles».
Preferisce il Cova magrolino o quello di oggi?
«Magro lo sono ancora, ma i chili in più sono dovuti all’età e al fatto che non faccio più agonismo spinto. Ma i 72 di oggi valgono i 57 di ieri. E il fiato c’è sempre».
6 agosto 2021: a Tokyo l’Italia vince l’oro con la 4x100 maschile e con Antonella Palmisano nella marcia. Ma il 6 agosto, del 1984, Alberto Cova trionfava nei 10 mila a Los Angeles.
«Per la nostra atletica il 6 agosto è magico. La data del giorno del mio oro è diventata il numero di telefono del mio cellulare».
A proposito di Tokyo: Jacobs ha scatenato illazioni.
«Sappiamo tutti che Marcel è afro-americano. Se avesse avuto la scritta Usa sulla maglia nessuno avrebbe detto nulla. Ma è italiano vero, allora ecco che gli danno addosso. Chi parla lo fa anche per invidia».
Lei era chiacchierato?
«Tra gli scontri verbali con Mei uno degli argomenti era questo. Se uno vince tanto c’è chi mette il dubbio la sua onestà: anche nella comunicazione dell’epoca funzionava così. Ho mai ricevuto proposte “oscene”? Assolutamente no».
È vero che si è sottoposto all’autoemotrasfusione, secondo il metodo del professor Conconi?
«Non so chi sostiene che l’abbia fatta. Il mio medico è sempre stato il professor Rodolfo Tavana. Quindi il riferimento era lui. Se la gente ci crede, bene; sennò, amen».
Silvio Berlusconi la chiamò in Forza Italia.
«Entrai in Parlamento grazie a lui e al suo entourage. Nel 1993 mi contattarono, avevo 36 anni e non correvo più. Quell’esperienza è stata un onore e un’occasione professionale. Nel giro di 6 mesi cadde però il governo, premier diventò il “tecnico” Dini e ci lasciò la Lega che era alleata. Dopo un anno e mezzo di limbo si tornò alle urne: Forza Italia perse vari parlamentari, me incluso. Nel 1996 è finito tutto: ho fatto di corsa pure il parlamentare».
Berlusconi oggi ha lo stesso carisma di un tempo?
«Il cambiamento non è in lui, ma nel mondo che lo circonda e che in termini mediatici l’ha distrutto. Tuttavia a 86 anni è ancora sul pezzo, anche se alla fine contano i numeri».
Suo padre era comunista. Mai tentato di seguirlo?
«Mai, il Sessantotto mi ha orientato: sono sempre stato favorevole al merito, ma in quegli anni si preferiva il “6 politico”. Papà leggeva l’Unità e lavorava a Milano, la “piazza” del sindacato. Ma quando gli dissi che mi candidavo con Berlusconi non mi rinfacciò che la famiglia fosse di sinistra. Disse invece: “È una tua scelta, vivila per come tu sei”. Credo che mi abbia pure votato, anche se non me l’ha mai detto».
Alberto Cova tornerà ad avere i baffi?
«No. Li ho tagliati quando stavano diventando grigi. Mi sono posto il dubbio che mi riconoscessero, ma è stata l’esitazione di un istante. Quindi resto così».