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 2023  aprile 01 Sabato calendario

Che cosa è successo in via Rasella il 23 marzo 1944

Fu l’azione più importante della Resistenza romana e non ha mai smesso di suscitare polemiche. Il 23 marzo 1944 alcuni partigiani comunisti fecero esplodere un ordigno collocato su un carretto della nettezza urbana in via Rasella, una parallela di via del Tritone, nel centro della Capitale. Bersaglio dell’operazione, che venne completata con il lancio di bombe a mano, era un reparto del reggimento Bozen (Bolzano in tedesco), composto di militari sudtirolesi arruolati dai nazisti con compiti di polizia dopo l’occupazione dell’Italia centro-settentrionale, quando l’Alto Adige venne di fatto annesso alla Germania sotto il gauleiter Franz Hofer.
Quei soldati passavano quasi ogni giorno per il centro di Roma di ritorno dal poligono di tiro situato a Tor di Quinto e lungo il percorso attraversavano l’angusta via Rasella, dove era possibile colpirli con micidiale efficacia. Marciavano cantando, ma non erano una banda musicale. Avevano in media un’età più alta dei coscritti destinati al fronte, ma non erano pensionati: i più anziani erano poco oltre la quarantina. A colpirli furono appartenenti ai Gap (Gruppi d’azione patriottica), le formazioni create dal Pci per condurre la guerriglia urbana contro i tedeschi e i fascisti. Il carretto con la bomba venne apprestato da Rosario Bentivegna; responsabile dei Gap romani era Giorgio Amendola.
Perirono sul colpo 26 militari, altri 6 morirono nelle ore immediatamente successive e uno l’indomani. In tutto i caduti del Bozen furono 33. Rimasero uccisi dalla bomba anche due civili italiani, mentre altri 4 vennero colpiti a morte dal fuoco all’impazzata aperto dai tedeschi subito dopo lo scoppio.
Infuriati per l’accaduto, i nazisti decisero di attuare una immediata rappresaglia eliminando dieci ostaggi per ogni soldato perduto. In gran fretta vennero radunati gli antifascisti detenuti, gli ebrei non ancora deportati, persone rastrellate in via Rasella dopo l’esplosione.
Alla compilazione degli elenchi di ostaggi da fucilare parteciparono anche le autorità fasciste della Repubblica sociale italiana, in particolare il questore di Roma Pietro Caruso, che poi per questo fu condannato a morte. Il 24 marzo 335 prigionieri furono trucidati dalle SS alle Fosse Ardeatine, cave di pozzolana situate poco fuori Roma, che vennero fatte saltare in aria dopo il massacro.
A differenza di quanto è stato a volte affermato, non vi fu alcun appello perché gli autori dell’attentato si presentassero per essere puniti al posto degli ostaggi, anzi l’annuncio della rappresaglia venne diffuso a strage già eseguita. Comunque, disse poi a tal proposito Amendola, sarebbe stato impensabile che dei combattenti si consegnassero al nemico sotto la pressione di un simile ricatto.
Per l’eccidio delle Fosse Ardeatine furono condannati nel 1952 il capo delle SS a Roma Herbert Kappler e negli anni Novanta un suo subordinato che era fuggito in Argentina, il capitano Erich Priebke. I relativi processi sono stati l’occasione per rilanciare le polemiche circa l’attentato di via Rasella, che per la verità non si sono mai spente. Oltre naturalmente agli esponenti della destra nostalgica, tra le voci più critiche verso l’operato dei gappisti vanno ricordate quelle di Indro Montanelli e di un uomo collocato indubbiamente a sinistra come Marco Pannella.
Non è in discussione tanto la legittimità dell’azione, che rientrava certamente nell’ambito della guerra partigiana, quanto il suo rilievo militare, inevitabilmente limitato rispetto all’entità dello scontro tra Alleati e Terzo Reich sul suolo italiano, e soprattutto la sua opportunità, perché era facilmente prevedibile che un attacco così cruento avrebbe provocato una risposta feroce da parte dei nazisti, che già avevano fucilato a Forte Bravetta numerosi resistenti in seguito ad attentati compiuti contro di loro.