Robinson, 1 aprile 2023
Cronache dall’Artico
In America li chiamano “misfits”. Noi traduciamo “disadattati”: persone che non hanno compiuto il normale processo di adattamento all’ambiente socio- culturale e vi si trovano in conflitto, più o meno cosciente e violento. Sarebbe più giusto definirli “inadatti”, sottolineando che è una condizione iniziale, senza alcuna colpa e anzi, con qualche pregio. Gli inadatti cercano di marcare la propria diversità, spesso rivolgono contro sé stessi l’istinto ferale o lo invocano fino a ottenerlo. A quel punto non resta loro che cercare un rifugio, che è in realtà l’unica possibile casa, e lì vivere appartati, fino a dissolversi nell’universo. Sven Stoccolma è uno di questi e le sue memorie sono straordinarie cronache di inadatti che hanno trovato la loro patria nell’Artico, la bandiera nelle infinite sfumature del ghiaccio, la famiglia nel riconoscersi e ridefinire i ruoli.
Di Nathaniel Ian Miller, autore all’esordio che ha ripreso una storia in parte vera e in parte leggenda, trasformandola in questo romanzo, poco si sa: solo che fa l’allevatore e vive nel Vermont con le persone che ama. Quel paesaggio è un buon viatico per le Svalbard, dove ha risieduto per qualche tempo e dove manda a rifugiarsi Sven, incapace di reggere la sporcizia, non soltanto fisica, della capitale svedese. Si lascia alle spalle una famiglia d’origine che non ha mai compreso, ricambiato, con due sole eccezioni: la sorella, donna saggia che incarna l’imperativo categorico kantiano e la nipote, un’intelligente ribelle a cui è misteriosamente passato un elemento del suo Dna. Sven è un assoluto anti-eroe: non cerca un ideale, ma soltanto un segno. Raggiunge l’ostile Spitsbergen per un ingaggio da minatore e qui un crollo lo sfigura, privandolo di un occhio e rendendolo ripugnante agli occhi della stessa umanità che gli ripugna. L’isolamento a cui mirava si compie così per forza, prima ancora che per scelta. Viene spinto lontano: nello spazio, ai confini gelidi della Terra e nel tempo, in una rarefazione frazionata in sei mesi di giorno e altrettanti di notte. Lì le lettere impiegano un anno per tratta e gli appuntamenti hanno scadenze quadriennali come i giochi olimpici invernali. La sua solitudine è interrotta da incontri che, come la punteggiatura, guidano la frase. Un minatore scozzese gli fornisce libri e aperture mentali, un anarchico ucraino pipe e lezioni di storia, un cacciatore finlandese e socialistaistruzioni per la sopravvivenza e un’indicazione: «Ho trovato il tuo fiordo. Ho trovato il silenzio che cercavi». Dopo averlo raggiunto, Sven lo descriverà così: «Era immerso in un’atmosfera triste e desolata. La sua vastità era impressionante. Non aveva alcun confine, nulla che garantisse alcun senso di sicurezza». Lo avevano avvisato: «Non troverai nessuna verità universale, ma forse comincerai a sentirti leggero, efficiente e pulito come un legnetto appena intagliato». La sola verità a cui va incontro è la profezia del minatore scozzese: «Il destino è vuoto», ma «la vita nel vuoto è priva di ferite, perché niente può toccarti». Sven si trasforma lentamente in pietra, niente più che un’increspatura nel paesaggio, destinata a scomparire sotto la neve.
Succederebbe, se in quel vuoto non precipitassero i due eterni motori dell’esistenza. Il primo è la storia, che soffia fino all’Artico le conseguenze dell’odio e delle guerre, mutando i padroni ( norvegesi, tedeschi, russi) e determinando migrazioni forzate, che risospingono anche Sven a Sud, nella presunta civiltà. Il secondo è l’amore, che si presenta nelle forme più impreviste e meno banali e spinge il solitario ad allargare il suo abbraccio e inseguire un sogno perduto oltre ogni confine si fosse o gli fosse stato dato.
Scriverà le sue memorie, SvenStoccolma, detto anche Sciupafoche o peggio. Lo farà in modo gentile, usandoci ad esempio la cortesia di sorvolare sulla maniera in cui sono stati commessi stupri e omicidi. La natura estrema toglie il carattere estremo ai gesti umani più efferati. Sposta la linea della compassione, s’aggrappa alla roccia di una giustizia basica. Ci sono pagine traboccanti pietà perché un tricheco addomesticato deve essere ucciso per potersi sfamare in un inverno rigido ( poi la sua testa viene posta su un fantoccio seduto a tavola). Neppure una riga di empatia, invece, quando vengono giustiziati uomini dai comportamenti più o meno inopportuni. È normale per gli inadatti, che non potrebbero sottostare ai codici della società, fondati su un’aspirazione e non su una realtà, su un’idea di umanità illusoria che la natura, libera di esprimersi com’era al principio e sarà alla fine, disperde. Quello di Miller è un romanzo d’avventura, ma non confondiamo, anche se ci sono amputazioni, valanghe, vendette, è di un’avventura morale che stiamo parlando. Di quel che un uomo incontra quando non ha più legge e troppo cielo.