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 2023  aprile 01 Sabato calendario

Daniel Pennac chiude la saga di Belleville

«Ho iniziato a scrivere la prima storia della famiglia Malaussène nel 1983, quarant’anni fa. Anche se non saprei dire esattamente perché, mi sembra che sia giunto il tempo di mettere fine a quest’avventura ». Daniel Pennac presenta così Capolinea Malaussène, il nuovo romanzo con cui ha deciso di concludere la sua famosissima “saga di Belleville”, che con i suoi sette volumi ha venduto oltre cinque milioni di copie in tutto il mondo. «Le opere hanno una loro temporalità e una loro vita che a un certo punto si esaurisce naturalmente. Avrei potuto continuare a scrivere altri episodi, seguendo le avventure dei personaggi, specie quelle dei nipoti di Benjamin Malaussène, che negli ultimi due romanzi hanno assunto un ruolo centrale. Ma non è più possibile, sento che un ciclo è finito. Forse dipende semplicemente dalla mia età o forse dal fatto che ho voglia di raccontare altre storie con altre forme».
L’azione del nuovo romanzo inizia dove cinque anni fa si era interrotto Il caso Malaussène, nelle cui pagine i nipoti di Benjamin rapivano un potente uomo d’affari per fare un’azione dimostrativa a fini umanitari, senza immaginare che poi il malcapitato sarebbe stato sottratto loro da una banda di veri malviventi disposti a tutto in nome del denaro. E ora i cattivi, comandati da un genio del male che tutti chiamano “Nonnino”, se la prendono direttamente con la tribù Malaussène, mentre Verdun, la sorella di Benjamin diventata giudice istruttore, cerca di capire chi si nasconda dietro le trame oscure che minacciano i suoi fratelli. Ne seguono come sempre molte peripezie, colpi di scena e un finale pirotecnico. «Credevo che scrivere quest’ultima avventura sarebbe stato più difficile, anche perché alla fine del Caso Malaussène non avevo assolutamente idea di dove sarebbe andata a finire la storia. Sapevo solo che non m’interessava ripetere la classica inchiesta da romanzo poliziesco, fatta di cadaveri, indagini e sospetti», racconta il romanziere nella sua casa parigina, davanti a un piatto di spaghetti al ragù, uno dei suoi piatti preferiti: «Poi il caso ha voluto che fin dalle prime righe mi sia imbattuto nel personaggio di Nonnino, che è diventato immediatamente il principio dinamico del libro. Era talmente originale che l’ho seguito di pagina in pagina».
In cosa consiste la sua originalità?
«Rappresenta la dimensione pedagogica applicata all’universo del male. Purtroppo, alla fine della mia vita, sono costretto a constatare che la sola attività continuamente prospera è l’industria del male, che sia individuale o collettiva, come purtroppo ci ricorda la guerra in Ucraina. Ho raccontato quindi una banda di malviventi che si costituisce attraverso una pedagogia del crimine, figlia della cattiveria di questi nostri tempi. E al centro della banda c’è un professore del crimine,Nonnino. Naturalmente non sono il primo a occuparmi della pedagogia del male, in passato lo hanno già fatto Dickens inOliver Twist o Huysmans inA ritroso».
Come agisce Nonnino ?
«In un mondo dove tutti si definiscono attraverso identità molto marcate, riesce a rendere i suoi giovani allievi privi d’ogni identità riconoscibile trasformandoli in fuorilegge.
A lui non interessano le identità degli uni e degli altri, le identità sessuali, etniche, ideologiche. I suoi ragazzi possono fare quello che vogliono e con chi vogliono, basta che non abbiano un’identità in conflitto con quella della banda. La loro unica identità deve essere quella che procura loro Nonnino, l’identità del crimine, del male, che poi è l’identità naturale dell’uomo, prigioniero dei suoi bassi istinti. Nonnino educa i suoi allievi in questa direzione, utilizza la sua autorità morale per corromperli, ma rivelandone i talenti nascosti. È un processo che ha avuto luogo infinite volte nella storia dell’umanità».
Alla fine però Nonnino affascina il lettore e sembra quasi diventare simpatico…
«In realtà non è per niente simpatico, è un pericoloso demagogo. Quello che lo rende intrigante agli occhi del lettore è il fatto che spesso le sue analisi siano giuste.
Nonnino non si sbaglia, ma le finalità del suo ragionamento sono evidentemente inaccettabili».
Anche lei è stato a lungo un insegnante. Nonnino è il suo ritratto in negativo?
«No, ma è vero che, come me, è un pedagogo e ha il senso della comunità. In realtà alcune persone sono pedagoghe per natura, anche se poi applicano il loro talento pedagogico ad ambiti più negativi di altri, il che è ovviamente un problema. È il caso di Nonnino, che oltretutto incarna lo spirito di questi nostri tempi, dominati dall’egoismo, dalla cattiveria individuale e collettiva».
Nella lotta tra il bene il male, nel romanzo spicca il personaggio di Verdun, la sorella di Benjamin diventata un’inflessibile giudice istruttore…
«Verdun rappresenta la legge, il diritto. Le interessano i fatti, non i giudizi. Vuole liberare i fatti da ogni idealizzazione, perché dal punto di vista dell’ideale non ci saranno mai colpevoli, dato che ciascuno ha le proprie ragioni. Per questo Verdun si sforza di adottare uno sguardo oggettivo sul mondo. Sa che il diritto è cosa diversa dalla giustizia, la quale è amministrata dagli uomini che corrompono il diritto con le loro sensibilità, le loro idee, i loro principi, i loro pregiudizi. Nel momento in cui il diritto diventa giustizia può fuorviarsi. Senza dimenticare che tutto l’apparato giudiziario cerca di costruire una narrazione coerente, mette insieme i fatti cercando di adattarli a un unico racconto che possa spiegare un evento apparentemente inspiegabile. In fondo, i giudici sono come il romanziere che cerca di dare coerenza alla sua narrazione, ma così facendo rischiano di forzare le prove. Verdun vorrebbe evitare tutto ciò, limitandosi ai fatti, senza interpretazioni affettive o ideologiche, senza narrazione. Sebbene poi, come si scopre nel romanzo, nemmeno lei sia perfetta».
Diceva prima che la sua saga è nata quarant’anni fa: cosa è cambiato di più tra i primi titoli e “Capolinea Malaussène”?
«Non credo che ci sia stata una vera e propria evoluzione letteraria tra un romanzo e l’altro, il mio stile è rimasto più o meno lo stesso, anche se ogni volta ho cercato di sfruttare elementi di novità sul piano tematico. È invece il mondo che in quarant’anni è profondamente cambiato. È cambiato il panorama politico, sociale, culturale e tecnologico. Quando ho iniziato a scrivere il primo dei romanzi di Benjamin Malaussène, c’era ancora il Partito Comunista e l’estrema destra era solo una piccola minoranza. Oggi il Partito Comunista in Francia si è quasi estinto, mentre l’estrema destra occupa la scena politica, e in Italia e in altri paesi è addirittura al governo. Anche i mezzi di comunicazione sono completamente cambiati, come pure i costumi giovanili, le abitudini sessuali, il linguaggio».
Anche i suoi personaggi sono cambiati?
«C’è la nuova generazione dei nipoti di Benjamin — Mara, Nange e Sigma — che ovviamente adottano i linguaggi e i comportamenti di questi nostri anni duemila. Ciò che non è cambiato è il temperamento di Benjamin, il suo modo di guardare il mondo. Soprattutto il fatto che non si rende mai conto di quello che gli sta capitando, scopre le cose sempre in ritardo, motivo per cui può diventare un perfetto capro espiatorio. Il lettore ne sa sempre molto più di lui, vede i pericoli a cui va incontro, può quindi preoccuparsi per lui oppure ridere della sua ingenuità».
In quest’ultima avventura Benjamin è meno presente che in altri romanzi…
«C’è sempre, naturalmente, anche se non è al centro della scena. In realtà, anche negli altri romanzi non è quasi mai l’attore principale, si pensi alla
Prosivendola
dove per tre quarti del libro è in coma in un letto d’ospedale. In ogni caso, è pur sempre il narratore, sebbene a volte lo sia quasi in maniera subliminale. Attraverso il suo punto di vista posso esprimermi su ciò che vedo nel mondo contemporaneo, sulla vita sociale e artistica di questi nostri anni, sulle abitudini digitali dei giovani, sull’universo dei social e delle fake news».
Cosa pensa della nuova realtà del mondo digitale?
«Abbiamo conosciuto una rivoluzione tecnologica sorprendente, che, come tutte le rivoluzioni, ha prodotto effetti positivi e negativi. Inoltre non tutti hanno potuto approfittare allo stesso modo delle sue opportunità. La velocità della comunicazione ci offre immense possibilità e un acceso al sapere senza precedenti, ma al contempo la nuova tecnologia ha scatenato i nostri istinti più bassi, la delazione, il linciaggio verbale, la ricerca di capri espiatori, favorendo il regno della disinformazione e della superficialità. A tratti questa rivoluzione è diventata un incubo. E purtroppo anche i media più tradizionali si fanno prendere da tale deriva. Naturalmente è molto difficile dire se alla fine prevarranno gli aspetti positivi o quelli negativi. Per ora ci troviamo di fronte a un far west dove un’opinione anonima può sostituirsi alla giustizia, designando colpevoli e capri espiatori».
Non dobbiamo quindi farci troppe illusioni?
«Della rivoluzione digitale si tende a sottolineare la dimensione negativa: la fine della sfera privata, l’individualismo eccessivo, l’esibizionismo di massa...
Tutte cose vere, ma nel mio romanzo i giovani Malaussène provano a usare i social e le nuove tecnologie per battere i potenti. E oggi vediamo sempre più spesso che questi strumenti possono svolgere un ruolo importante al servizio della collettività. Insomma, spero che alla fine, quando potremo fare un bilancio, i vantaggi siano più degli svantaggi».
Prima però diceva che il male continua prosperare…
«Purtroppo è così. E se aggiungiamo il cambiamento climatico, le pandemie, le guerre, la situazione non è certo incoraggiante. Viviamo un’atmosfera da fine del mondo che non lascia molto spazio all’ottimismo. Però poi penso che l’ottimismo siamo noi, l’amicizia, la solidarietà, le relazioni tra le persone».
Parlando di lei, “Le Monde” l’ha definita “un umanista senza illusioni”. Pensa di essere così?
«Forse sì. Sono convinto che occorra amare gli altri nonostante tutto. Naturalmente non è sempre facile e spesso occorre veramente sforzarsi, perché l’umanità fa di tutto per non farsi amare. Eppure, malgrado tutto l’orrore che vediamo, dobbiamo essere capaci di amare le persone per quello che sono. Nel mondo in cui viviamo ci sarà sempre chi è felice di mettersi al servizio del male, ma ci saranno sempre anche altre persone che cercheranno di cambiare le cose, pensando agli altri e al bene comune, attraverso l’esercizio di un’intelligenza critica nei confronti del mondo».
Uno sguardo critico che nella letteratura trova un luogo d’elezione?
«Il romanzo è il luogo dell’ambivalenza, è come la vita che non è mai tutta della stessa tonalità, ed è piena di contraddizioni, sfumature, interrogativi. Un saggio fa lucesu un problema, identificandolo, isolandolo e facendolo immediatamente risaltare. Il romanzo invece è come l’acqua, s’infiltra dappertutto, sfugge, scorre negli interstizi. Il romanzo è la vita con le sue contraddizioni e le sue incertezze, è un universo dominato dalle tonalità del grigio invece che dall’opposizione netta tra bianco e nero.
Anche per questo, tra
Madame Bovary
e
Anna Karenina,
non ho dubbi, scelgo il romanzo di Tolstoj».
Perché?
«Perché Tolstoj è lo scrittore del dubbio. I suoi personaggi non sono mai portatori di certezze. Flaubert invece pensa continuamente di aver ragione, procede per certezze successive, sul piano sociologico e antropologico. Se con Flaubert si ha l’impressione di capire grazie a analisi e descrizioni complesse, con Tolstoj si ha l’impressione divivere la complessità della vita».
Per Calvino, la letteratura deve riuscire innanzitutto a trasmettere un certo sguardo sul mondo…
«Certo, e naturalmente non è il solo a ricordarcelo. Si pensi a Stendhal che ha avuto l’intuizione della complessità, la quale non può essere ridotta a un semplice ragionamento, perché la realtà è fatta anche d’altro, d’irrazionale, di pulsioni, di desideri, d’imperativi. Cosa motiva le persone? Cosa le muove? Perché il desiderio di potere e di ricchezza? Perché la violenza? Sono domande a cui a volte la letteratura riesce, almeno in parte, a rispondere».
Che altro può fare la letteratura?
«Ci aiuta a resistere. Come ha fatto Solzenicyn che attraverso la lettura ha resistito al gulag e al cancro.
Oppure Jean Paul Kaufmann che resistette ai tre anni del suo sequestro a Beirut rileggendo di continuo l’unico volume diGuerra e pace che aveva con sé. Ma anche Gramsci che legge e scrive nelle prigioni di Mussolini, Daj Sije che legge Balzac nei campi di rieducazione cinesi o primo Levi che recita Dante a Auschwitz. La letteratura ci aiuta a sopravvivere al male del mondo, grazie alla sua natura profonda che è quella del dubbio, dell’ambiguità, dell’incertezza. La letteratura ci dà la forza di resistere».
C’è poi anche il piacere della lettura, che lei ha difeso nei suoi famosi dieci diritti del lettore, enunciati in “Come un romanzo” nel 1992. Oggi sembrano essere condivisi da tutti. È una battaglia vinta?
«Sì, ma ormai sono dieci banalità, è per questo che sonotutti d’accordo. Ci sono ancora molte persone che pensano che metà dell’umanità non sia degna di leggere quello che leggono loro. Sono le élite della cultura, per le quali lo snobismo è una forma d’identità. Considerano la cultura come una sorta di proprietà privata da non condividere con gli altri e guardano dall’alto in basso i semplici narratori di storie come me. In realtà, i narratori, specie quando sono del calibro di Tolstoj, ci propongono una visione del mondo molto più ricca ed esatta».
Nonostante il suo pessimismo di fronte alle derive del mondo, ci sono ancora battaglie per le quali sente di dover combattere?
«Certo. Per esempio cerco di aiutare Sos Mediterranée, l’ong europea che si batte per il salvataggio dei migranti nelle acque del Mediterraneo. Davanti alle tante tragedieche si ripetono di anno in anno, non possiamo più voltarci dall’altra parte, lasciando annegare tanti uomini, donne e bambini senza far nulla. Abbiamo trasformato il Mediterraneo in un cimitero. Questo mare bellissimo è diventato il simbolo della nostra tranquilla e pacifica mostruosità, della nostra totale mancanza di umanità. E la peggior mancanza di umanità è quella che cerca di giustificarsi con elementi razionali. Guardiamo la gente annegare nel Mediterraneo e intanto continuiamo a parlare dei nostri valori democratici. Me ne vergogno. E quindi fino a quando questo mare, a cui sono tanto legato, sarà il teatro di eventi tragici come quello di Cutro, non potrò più bagnarmi nelle sue acque. Non farò più il bagno nel Mediterraneo. Non posso più far finta di niente».