Tuttolibri, 1 aprile 2023
Dolores Prato scrisse di scarti (come lei)
Dolores Prato non aveva fantasia e lo ribadiva spesso, nelle lettere, negli appunti, nei quaderni su cui ogni mattina, per oltre cinquant’anni, ha riportato i suoi sogni. Non che quella mancanza fosse un cruccio, per lei: non le interessava creare mondi e meno che mai evadere o inventare. Né le stava a cuore l’indagine, lo scavo volto a sviscerare, svelare, smascherare.
A Dolores Prato importava raccontare la realtà visibile, le cose presenti, l’esperienza come fatto relazionale. Voleva trasformare la vita in racconto, ed è la ragione per la quale la sua letteratura non solo si capisce dai frammenti, gli appunti, le bozze: sta lì. Perché lì sta la sua selezione o meglio il tentativo di farne una, che era per lei il senso della scrittura: cosa e perché colpiva il suo sguardo, cosa e perché le parlava, cosa e perché descriveva un fatto. Risposta: praticamente tutto. Questo è stato il suo dramma: per lei non c’era elemento di scarto; tutto era, in eguale misura, importante. Dei cinque volumi che aveva progettato di dedicare al racconto della sua vita riuscì a scriverne solamente uno, Giù la piazza non c’è nessuno, che uscì per Einaudi nel 1980, quando aveva ottantotto anni, e lo aveva cominciato a scrivere sette anni prima, ma ci aveva girato intorno per tutta la vita: quello che aveva scritto era un prodromo, una bozza di quello che sarebbe finito lì. 1058 pagine che Natalia Ginzburg tagliò, provocando a Prato un dispiacere insanabile: il libro uscì, integrale, con un altro editore, solo dopo la morte di Prato (nel 1983), autrice che in vita è stata tanto apprezzata quanto scansata, e ora, da qualche anno, comincia a essere riproposta, un pezzo per volta, una perla dopo l’altra, da Quodlibet (editore delle Marche, sua casa adottiva). Nell’ultima di quelle mille e passa pagine in cui aveva raccontato la sua infanzia, Prato scrisse: «Eravamo tutti inconclusi, la zia, io, lo zio, come il Sile, fiume inconcluso, fiume disperso». L’inconclusione è l’esito di tutta la sua ricerca: lo stare al mondo è una trasformazione perenne ed è in quel flusso che deve muoversi la letteratura, è lì che deve porsi per imbastire il suo racconto. In sostanza, Dolores Prato, in pieno Novecento, ha scritto delle fluidità con cui, ora, rinominiamo e riassettiamo il mondo. Prima di Giù la piazza, scrisse articoli e pamphlet contro Roma capitale d’Italia perché era convinta che la città avrebbe dovuto restare solo e soltanto vaticana; tutti i sogni che s’era appuntata per 53 anni (820 pagine, pubblicate nel 2010 da Quodlibet in Sogni); e sempre, costantemente, della sua famiglia e dell’infanzia che non aveva avuto.
Era nata, nel 1892, da un amore clandestino tra un avvocato che non la riconobbe e Maria Prato, che la abbandonò presto a casa di suo fratello, un prete che viveva a Treia, in provincia di Macerata, e che prima di volerle bene ci mise parecchio ad accettarla. In Giù la piazza non c’è nessuno, Prato racconta di essere «nata sotto un tavolino»: il suo primo ricordo, quello che l’ha condizionata per tutta la vita, è la voce di suo zio che dice a sua zia che devono darla via e lei bambina, nascosta sotto il tavolo della cucina, capisce in quel momento chi è: una figlia ripudiata, un ingombro. E come avrebbe mai potuto, una scrittrice che si diceva venuta al mondo nel momento in cui qualcuno aveva detto che lei era di troppo, una donna che si era riconosciuta nel rifiuto, scrivere diversamente da come ha scritto, e cioè negando gli scarti, e dando asilo e importanza a tutto, nelle sue pagine? Quello stesso zio riluttante, però, l’aveva poi amata, cresciuta, ma non aveva potuto impedire che lei vivesse da sgradita, che l’infanzia le venisse tolta: lei era una bambina esule in casa sua, illegittima per censo e non per sangue, come sono stati moltissimi bambini nel Novecento italiano. In una lettera del 1978, Prato scrisse che dei suoi cinque libri autobiografici, quello dedicato all’infanzia (Giù la piazza non c’è nessuno), sarebbe stato il più lungo perché «l’infanzia è un vuoto immenso dove precipitano le cose», e si disse anche sicura che il libro successivo, quello sull’adolescenza, sarebbe stato assai più breve perché avrebbe raccontato il collegio: «Con 300 pagine si fa: nel collegio non ci sono più cose, ci sono solo parole». Quel libro non è mai arrivato: Prato non ne ha avuto il tempo, l’impresa era troppo lunga. Ma ci aveva lavorato, e sono rimaste le carte su cui aveva appuntato l’educazione dalle suore, moltissimo di quegli anni che, dal 1905 al 1911, cioè tra i 13 e i 19 anni, trascorse nell’educandato del monastero di Santa Chiara di Treia, retto dalle monache della Visitazione. Elena Frontaloni ha curato per Quodlibet la raccolta di quella carte, e le ha messe insieme in Educandato, in libreria dal 29 marzo.
Prato arrivò lì reduce da un’infanzia nella quale, anche se in ritardo, in chiusura di finale, era stata amata: suo zio s’era fatto convincere che, non essendo suo genitore, non avrebbe potuto crescerla nel modo giusto, che la sfida dell’adolescenza richiedeva una forza che a un non padre non era data e così, per quanto recalcitrante fosse, aveva dovuto cedere, spinto anche dalla povertà di mezzi a sua disposizione. Sbagliava. E Prato non lo condannò mai: alla loro storia di famiglia improvvisata, voluta dalla necessità, assemblata dalle forze maggiori, anzi, lei ha dedicato la cura delle parole, il mestiere di «vivere per raccontarla».
Educandato è un altro libro inconcluso ma preciso: un documento eccezionale di come le suore si occupavano delle bambine, della sorte che questo Paese ha riservato a chi non aveva famiglia o non era di buona famiglia. Fa impressione leggerlo ora, mentre discutiamo di cosa fa un uomo un padre e una donna una madre, chiedendoci per l’ennesima volta se allevare un bambino corrisponda solo all’amarlo, se imponga di imprimergli il nostro segno o liberarlo da noi, mentre cerchiamo di stabilire criteri più o meno inclusivi per reinventare la famiglia scorporandola dall’identità (ammesso che sia giusto, o almeno efficace). Fa impressione perché di quel tempo che Dolores Prato racconta, di quelle stanze enormi e soffocanti in cui ogni giorno le bambine venivano forzate all’omologazione, al passo silenzioso (e sempre indietro), siamo evidentemente eredi. Lo siamo nel discutere che i bambini possano e debbano nascere solo e soltanto in un modo, e lo siamo nel pensare che i figli non siano di tutti, e che quello che succede ai bambini riguardi soltanto chi li fa. Tutta la vicenda di Dolores Prato è una requisitoria contro ignoti: noi.
La nostra storia è piena di innocenti a cui abbiamo negato tutto perché non erano nati come si credeva che si dovesse nascere. Gli orfanotrofi e i conventi e gli educandati erano istituti in cui i bambini venivano accolti per espiare la colpa di essere nati: le radici di chi siamo sono anche lì. Il nostro Novecento l’hanno fatto i migranti e gli esuli domestici, i bambini illegittimi.
«Io non vedo nulla della psiche delle persone: non vedo il perché dei fatti, vedo solo quel che appare», scrive Prato. E nelle quasi 300 pagine di questo libro c’è anche il racconto di come alle bambine recluse, per anni, questo Paese ha consentito che una psiche venisse negata. Non tutte hanno potuto farne, poi, il cardine di una poetica: non tutte sono sopravvissute.