Tuttolibri, 1 aprile 2023
Lo stupidometro di George Courteline
Quando incrociava una donna attraente, Courteline non riusciva a a trattenersi dal commentare - «Ecco una bella signora!». «Buongiorno Mademoiselle!». «Che cappellino chic!». «Che begli occhi, Madame!» - col rischio di farsi rimproverare dalle più irritabili, che non sapevano di avere a che fare con uno degli autori più popolari del momento.
George Moineau, il suo vero nome, non aveva certo il fascino di un’altra celebrità del comico, Georges Feydeau. Assomigliava piuttosto a uno degli impiegati del suo delizioso Tipi da scrivania, riproposto da Elliot. In un ufficio apparentemente privo di scopo si intrecciano le vite di quattro tragicomici burocrati, tra cui spicca l’insubordinato Lahrier, sempre pronto a marinare il lavoro e le grottesche lotte intestine dei colleghi.
Piccolo, la testa incassata tra le spalle, la pelle grigiastra e gli occhi mobilissimi, spuntava all’improvviso agitando come una marionetta le mani che spuntavano dalle maniche troppo lunghe. Aveva sperimentato di persona l’assurdità della burocrazia nei polverosi uffici del Ministero dei Culti, dove dava metà del suo stipendio a un collega, purché lo liberasse dalla noia del lavoro e dalla tirannia dei superiori. «L’uomo è un essere delizioso: il re degli animali. Dicono che sia ottuso e feroce, è un’esagerazione. È feroce solo con chi non può difendersi».
Le sue commedie erano sempre dei successi. Gli attori, tra cui Colette, che avevano lavorato con lui, avevano dovuto ammettere che quell’omino dalla voce roca poteva essere, quando voleva spiegare un passaggio, un attore straordinario. I suoi bersagli erano l’esercito, la pubblica amministrazione, la famiglia, i tribunali e le donne. Pur vedendole il più delle volte vanitose, superficiali e infedeli, non poteva fare a meno di amarle.
In realtà, Courteline era romantico come la sua svolazzante cravatta lavallière e, malgrado tutte le decorazioni piovute su di lui, non aveva esitato a schierarsi a favore del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio da una destra antisemita e reazionaria. La sua gaiezza non riusciva a dissimulare una grande bontà venata di malinconia. Timido, faceva il burbero per difendersi dall’insistenza degli ammiratori ma non era, come insinuavano, un misantropo. Schivava gli adulatori - «Sono solo un dilettante e le mie storie non mi interessano» - ma teneva molto all’approvazione dei pochi che stimava.
Non gli interessava la modernità, preferiva osservare gli altri, ma non era un moralista. A quell’anarchico borghese interessava capire il prossimo, non giudicarlo. «L’insondabile stupidità degli uomini fa da contrappeso alla loro sorprendente cattiveria». Per prendere in giro gli sciocchi aveva inventato, in un momento di goliardia, lo stupidometro, una specie di sifone di vetro graduato, pieno di alcol rossastro. Chi voleva sottoporsi alla prova doveva solo stringerlo in mano per vedere fin dove il liquido sarebbe salito. Pochi sapevano che il congegno era collegato a un tubo che scendeva in cantina dove un complice del commediografo faceva salire il liquido secondo i segnali lanciati da Courteline.
Si svagava salendo sui treni che andavano nei paesini di provincia dove, entrato nel primo locale che incontrava, partecipava alle chiacchiere della gente del posto, accumulando materiale per le sue opere. Non gli importava chi fossero i suoi interlocutori - amici, signore o sconosciuti - ma aveva la mania di persuadere gli interlocutori delle sue tesi. «Se dovessimo tollerare negli altri tutto quello che permettiamo a noi stessi, la vita sarebbe insopportabile!».
Indifferente alla mondanità, Courteline era inafferrabile: non si sapeva mai dov’era, aveva vari indirizzi, ma non rispondeva alle lettere e agli inviti. Chi aveva la fortuna di incontrarlo per caso, doveva ammettere che, mentre sembrava ascoltare con attenzione, lo scrittore era assorbito dalla trama del suo ultimo lavoro. Strappargli la promessa di una cena si rivelava, il più delle volte, inutile, malgrado la gentilezza con cui l’accettava.
Alphonse Daudet, che l’ammirava, al contrario di tanti colleghi invidiosi del suo successo, si chiedeva: «Come attirare Courteline? I salotti lo annoiano. Bisognerebbe creare qui un piccolo caffè». È più facile cambiare religione che caffè, sosteneva lo scrittore, che spesso lavorava al tavolino dei locali, pur di sfuggire al tumulto della vita familiare. Aveva passato la giovinezza nella bohème di cui aveva ancora nostalgia. Anche se ormai abitava lontano, attraversava la città per tornare all’Auberge du Clou molto amato anche da Apollinaire, dove si poteva parlare liberamente senza timore di scandalizzare nessuno. Si chiamava così perché i pittori senza soldi pagavano le consumazioni appendendo i loro quadri al clou al chiodo sulle pareti del locale. La sera, Courteline raggiungeva verso l’una gli amici al Café Napolitain, dove li faceva ridere senza abbandonare la sua serietà, effetto di una radicata malinconia.
Chiamava Paul Verlaine, che adorava, «l’ubriacone», ma faceva di tutto per aiutarlo. La prima volta che l’aveva visto, il poeta aveva bevuto talmente che non riusciva a dire al cocchiere dove abitava; Courteline aveva dovuto enumerargli le vie del quartiere finché non se l’era ricordata.
Quando aveva saputo che il Doganiere Rousseau, che aveva incluso nella sua famosa collezione di opere grottesche, era ormai considerato un vero artista, era rimasto deluso e lo aveva venduto frettolosamente, senza aspettare che le sue quotazioni salissero.
Invecchiando, aveva smesso di lavorare. La malattia che l’inchiodava a letto impediva a lui, così vivace, di muoversi. Poi una cancrena l’aveva divorato lentamente. Aveva detto: «In certi giorni vorrei passeggiare sui boulevard con uno di quei cilindri da viveur, su cui metterei un cartello ben chiaro» con scritto: «Non credo a una parola di tutte le storie che riguardano il nostro passaggio quaggiù: amore, amicizia, ambizione, gloria, denaro». Ma poi aggiungeva: «Credo che aprire troppo gli occhi su se stessi non sia un regalo da fare ai nostri simili, spingendoli a perdersi sulla strada dell’unica verità che non menta: quella dell’assurdità di tutto questo inutile e pretenzioso baccano».