il Giornale, 31 marzo 2023
Gaia Tortora ricorda il caso giudiziario del padre
Il 17 giugno del 1983, quasi quaranta anni fa, una ragazza stava per dare il suo esame di terza media. Non lo sapeva ma, alle 4 del mattino, suo padre era stato arrestato per associazione a delinquere di stampo camorristico. Lei si chiama Gaia. Lui, Enzo Tortora. Quel giorno all’alba è cominciato «uno dei più clamorosi casi di malagiustizia che la storia italiana ricordi, ma anche un calvario umano che sarebbe durato anni, deviando il corso di tante vite», come scrive Gaia Tortora in Testa alta, e avanti (Mondadori, pagg. 126, euro 17,50). È un libro breve, denso e commovente che nel sottotitolo delinea un filo rosso: «In cerca di giustizia, storia della mia famiglia». Gaia Tortora racconta questa storia da figlia, da sorella e da giornalista (lavora in televisione, a La7, dove è vicedirettrice del Tg e conduce Omnibus). Perché ha deciso di scrivere questo libro? «Quando c’è un caso di errore giudiziario, anche se io lo chiamo accanimento, perché, volendo, avrebbero potuto risolvere l’errore in poche ore o, esageriamo, in pochi giorni e invece lo hanno volutamente trascinato; ecco, dietro questa discesa all’inferno che ti cambia la vita e alla fine, forse, ti può restituire la vita di prima, ma non la persona di prima, ci sono delle famiglie, dei parenti, dei coniugi, dei figli. Ed era il momento di dire che cosa accade alla famiglia che vive un inferno come quello». Un inferno a cui non vi siete arresi, come indica il titolo: Testa alta, e avanti. «È una frase che mio padre mi scrisse in una lettera. Anche se di quell’esortazione non c’era alcun bisogno: nessuno è mai stato sfiorato per un secondo dal dubbio. E poi a testa alta nel difendere principi spesso violati». A che cosa si riferisce? «Alla malagiustizia e alla mala-informazione, che sono andate di pari passo: non posso assolvere nessuna delle due. Ovviamente, certa magistratura e certa informazione. Ma sono andate a braccetto per spolpare un essere umano e, di riflesso, quelli intorno a lui». La mattina dell’arresto lei aveva 14 anni e doveva dare l’esame di terza media. «Già. Mi sveglio prestissimo e noto che il telefono suona, anche se sono le 6 del mattino... Però non ci faccio caso. Lo stesso quando vedo la vicina di casa che esce da scuola, anche se non ha figli lì, e poi faccio l’esame per prima, anche se avrei dovuto farlo più tardi... E alla fine mi giro e vedo mia sorella sulla porta... Pensavo che fosse successo qualcosa alla mamma. Invece lei mi dice: È papà, ma non ti preoccupare ché si chiarisce tutto subito. E invece». Quindi all’inizio c’era questa convinzione, che l’errore sarebbe stato subito chiarito? «Ma sì. Il salone di casa sembrava diventato una war room, con amici e avvocati, e tutti erano convinti che si trattasse di una accusa talmente abnorme che si sarebbe chiarita subito, che fosse una roba da poco...». Invece suo padre fece sette mesi in carcere, quattordici mesi ai domiciliari e, in tutto, ci vollero quattro anni affinché la sua assoluzione venisse sancita definitivamente dalla Cassazione. Si è spiegata questa persecuzione? «Negli anni ho pensato al fatto che quella fosse la prima grande retata contro la Nuova camorra organizzata, con ottocento e rotti arresti, anche se poi duecento sono stati assolti. Però doveva stare in piedi... Altrimenti è un problema, dopo che hai arrestato un personaggio così noto e popolare... Oggi faccio fatica a indicare un programma televisivo che abbia tanti spettatori quanti ne aveva il suo Portobello: soltanto i mondiali di calcio raggiungono quelle cifre». La popolarità ha alimentato la gogna mediatica? «Da una parte la sua storia è stata più amplificata. Ma, dall’altra, puoi anche usare questa popolarità per combattere in modo più visibile. Tante persone non hanno la stessa possibilità, nel bene e nel male, e fanno fatica a far emergere l’errore e la loro voce». Lei però parla anche di malafede di certi «intellettuali da bar». «Mi riferisco alla frase aberrante della signora Cederna secondo cui non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Direi che di intellettuale, in questa frase, c’è poco. Se riesci a dire una cosa del genere... Ma io ho più speranza nelle persone normali che negli intellettuali». Cita anche qualche voce discordante: Montanelli, Biagi, Bocca, Feltri. «Feltri fu l’unico a prendersi la briga di non fare come il resto dei colleghi che seguivano il processo: in albergo sfogliò il faldone del caso e capì che qualcosa non tornava. Mi chiedo perché non l’abbiano fatto anche gli altri: in fondo, è semplicemente fare il nostro lavoro, leggere gli atti e farsi venire delle domande, senza pregiudizi o tesi precostituite. Sarebbe interessante chiedere a loro perché». Feltri se ne accorge, lo scrive, e poi? «E poi, in questo Paese, ci si divide sempre in innocentisti e colpevoli, come ai tempi di Tangentopoli». Racconta che, paradossalmente, proprio il momento in cui suo padre era in carcere è stato quello in cui lo ha sentito più vicino. «Mio padre era già separato da mia madre da anni, da quando io ero piccola, quindi non avevamo una quotidianità da famiglia tradizionale. E la lettera era l’unico modo, in quel momento: uno strumento di vicinanza, di conoscenza e di crescita, con i suoi tempi, quello di scriverla, di spedirla, di aspettare la risposta...». La mattina dell’arresto di suo padre fu Piero Angela ad aiutarla? «Prima che un collega, Piero Angela era uno dei migliori amici di mio padre. Ho ricevuto grande affetto da parte sua e di tutta la sua famiglia: per me è un secondo padre». Scrive che ciò che è successo ha cambiato il vostro «lessico famigliare». Come? «Tutti noi avevamo un ruolo, un compito, e quella che poteva essere una crisi o una esigenza di una ragazzina la facevo passare in secondo piano, per non pesare o dare ulteriori preoccupazioni a mia mamma e a mia sorella, che già avevano il loro carico. Poi sempre una ragazzina ero... Ma non saprò mai come avrebbe potuto essere, senza quel viaggio all’inferno». Dal libro emerge una constatazione tragica: anche dopo l’assoluzione, non è mai finita? «Mai. Per questo la giustizia deve essere veloce, anche nella riparazione: perché se tieni una persona in attesa troppo a lungo prima di liberarla o di decidere se sia innocente o colpevole, è come se le imprimessi un tatuaggio indelebile. Se i tempi sono lunghi, non recuperi più niente: la sentenza non ti restituisce niente, perché la persona non è più come prima». Suo padre tornò a Portobello il 20 febbraio 1987, ma «era invecchiato di mille anni». «Non era più lui. Si vedeva dallo sguardo, velato. Come dire: sono qui, ma in realtà non ci sono più. Era contento di tornare in tv e di fare il suo lavoro, ma non era quello di prima: testa e cuore erano rivolti a quanto era successo, al pensiero che anche una sola persona, incontrata per strada, potesse pensare male di lui, e che altri vivessero la stessa esperienza. E su questo si era impegnato». Per il referendum, promosso con i radicali, sulla responsabilità civile dei magistrati? «Nei referendum le persone si esprimono in un modo, e poi in Parlamento...». Srive: «Mi disgusta che lo Stato non si sia fatto in alcun modo carico di questo tragico errore giudiziario, così come che i giudici che l’hanno perseguitato non solo sono stati assolti in tutte le sedi deputate al loro giudizio, ma sono addirittura stati promossi». «Eh sì, è così. Hanno fatto tutti carriera. Non è il Paese del merito. E poi immagini anche solo i costi economici per sostenere le spese per avvocati, carte, viaggi... Devi essere quanto meno risarcito economicamente, e il giudice che ha sbagliato deve pagare, non essere promosso». Il 18 maggio 1988, poco più di un anno dopo il ritorno in tv, suo padre muore. È morto a causa di tutto questo? «Non posso dirlo. Però penso che una bomba atomica, come la chiamava lui, che ti esplode dentro, in qualche modo lavora al tuo interno. Una cosa del genere ti trasforma». Con tutto questo dolore ha fatto i conti? «Sì. Ho pagato un prezzo. A un certo punto ho avuto attacchi di panico, il corpo mi ha spinto a dire: fermati. Allora ho iniziato a mostrare le mie debolezze e a trattare ciò che avevo passato non come eventi sfortunati, bensì per quello che sono, cioè traumi. E ci ho lavorato sopra». È vero che qualcuno ha cercato il suo perdono? «Sì, sia un ex pm, sia uno di quei cialtroni, perché non posso chiamarli pentiti; ma non se ne parla proprio. È gente in cerca di pubblicità, che qualcuno gli ha dato». Pensa che il suo libro possa cambiare qualcosa? «So bene che non basta un libro perché domani il mondo sia perfetto, perché tutti sbagliamo. Ma, se sbagli, devi essere velocissimo a riparare. L’ho scritto perché chi vive o ha vissuto questa esperienza non si senta solo: io ho, diciamo così, la fortuna di poterne parlare e di fare questo lavoro, ma c’è chi si sente all’inferno da solo, è a pezzi, e subisce dei danni da questa fragilità. Questa società ci vuole tutti fortissimi, invece tanti si sentono fragili nel dolore e nella solitudine, e spero si sentano meno soli».