la Repubblica, 31 marzo 2023
La vedova Calabresi: «Pietrostefani è un altro»
I mistici dicevano, più o meno: «Se non sai dove andare, prendi una strada che non conosci». E così sembra aver fatto nella sua latitanza a Parigi Giorgio Pietrostefani, l’ex capo del servizio d’ordine di Lotta Continua. Lo ha raccontato ieri Gemma Calabresi Milite, la vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso in un agguato a Milano il 17 maggio 1972, per ordine — così dicono le sentenze — di Pietrostefani eAdriano Sofri, entrambi condannati a 22 anni di carcere.
Mezzo secolo dopo quell’omicidio, i cosiddetti Anni di piombo restano per molti cronaca dolente e divisiva: ma «Pietrostefani — ha detto ieri la signora Gemma in un incontro con gli studenti dell’Arcivescovile di Trento — non è più quello di cinquant’anni fa». C’è una spiegazione: «Quando si parlava di estradizione, mio figlio maggiore Mario è andato a incontrarlo a Parigi. Non posso dirvi cosa si sono detti, perché ha chiesto che quel colloquio fosse riservato. Però posso dirvi una cosa che vi aiuta a capire: anche lui ha incontrato Dio. Dio è andato anche da lui e non è più la persona di 50 anni fa».
La fede religiosa non è argomento da “opinioni”, o esiste o non esiste. E va detto che tra gli ex terroristi c’è davvero di tutto. Non pochi venivano già allora da esperienze cristiane (uno dei primi infiltrati del generale Carlo Alberto dalla Chiesa era non a caso un religioso, detto “frate mitra”). Ancora oggi, c’è chi fa volontariato, chi si occupa di detenuti, chi va spesso a raccogliersi in preghiera. Ma c’è anche qualcuno che è tornato a fare rapine — pochissimi — , o a rivendicare un ruolo non soltanto criminale del terrorismo. Del percorso religioso di Pietrostefani, che mai ha accettato la condanna al processo, nulla si sapeva: il prossimo novembre compirà 80 anni, sta dentro e fuori dagli ospedali dopo un trapianto di fegato e, diventato manager di importanti aziende, aveva rinnegato la stagione della violenza ben prima dell’arresto, che risale al 1988. E cioè a quando Leonardo Marino, che guidava l’auto dell’attentato compiuto materialmente da Ovidio Bompressi, confessò il delitto ai carabinieri (anche lui alla fine di un percorso religioso).
Calabresi era ritenuto il responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe (Pino) Pinelli, avvenuta in questura durante un interrogatorio nel dicembre 1969, nei giorni della strage fascista di piazza Fontana. E fu il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a chiedere a Gemma e a Licia Pinelli di incontrarsi (maggio 2009), anche per favorire una riconciliazione generale. Le vedove in qualche modo si trovarono e si abbracciarono. Ma non sono cambiate le diverse letture di quel periodo insanguinato. «Oggi — è la visione della vedova del commissario — prego perché i responsabili della morte di mio marito abbiano pace nel cuore». Il perdono per chi ha ucciso può dunque esserci, ma poi?
La Corte di Cassazione francese ha infatti riaperto la ferita: la sentenza «dice che è assurdo mettere in carcere delle persone perché oggi loro si sono rifatte una vita e hanno una famiglia. Questo — sostiene la signora Gemma — ci offende, perché le nostre famiglie contano di meno. Doveva forse essere diversa la motivazione, con più rispetto per chi ha sofferto».
Già nel 2021, quando per qualche giorno Pietrostefani, così come gli altri terroristi che vivono in Francia, finì in cella, lei aveva pensato che non avesse senso «far entrare in carcere Pietrostefani, in quanto anziano e ammalato».
Sulla storia familiare, sociale e politica ha scritto un libro —La crepa e la luce ,Mondadori — che nella fede ha la chiave d’interpretazione delle scelte di vita. E agli studenti ha aggiunto un consiglio: «Quando siete in gruppo, non diventate gregge, mantenete un pensiero libero. Prima di condannare una persona informatevi. In quegli anni tanti gridavano, ma pochissimi pensavano».