La Stampa, 31 marzo 2023
Intervista ad Adam Gopnik
Adam Gopnik è un sofisticato studioso della realtà; un esteta del tangibile che ha dedicato gran parte della sua vita e molta della sua carriera a trasporre quello che incontra per il mondo, catalogando minuziosamente i tipi umani che si trova a descrivere, studiando le culture dei popoli coi quali entra in contatto, facendo tesoro di ogni esperienza e assaporando ogni boccone di ciò che gli viene servito.
Il naturalista ed esploratore Alexander Von Humboldt disse: «Il mondo è il nostro destino, abbiamo il dovere di impararlo a memoria». Da New York, dove si è trasferito per lavorare al New Yorker appena trentenne, a Parigi, da dove ha scritto per più di undici anni, Gopnik – che nella sua carriera ha scritto centinaia di articoli e una decina di saggi su tutto ciò che gli sta a cuore (tutti pubblicati in Italia da Guanda) – sta seguendo il precetto di Humboldt alla lettera: cerca di imparare il mondo a memoria in tutte le sue sfaccettature. Studia l’inverno e il cibo, le strade e le città, la politica e la società con la dovizia di un ricercatore appassionato. Non c’è niente che gli sfugga, niente che gli possa mancare.
La realtà è il suo pane, che tipo di scrittore è?
«Un saggista. È sempre stata la mia passione, una forma di espressione intima. Per me non c’è niente di più intimo del personal essay, il saggio personale. È il luogo dove la propria vita privata diventa pubblica nel modo più brutale possibile. È una dichiarazione di intenti».
E non si può mentire…
«Non si dovrebbe, no. Quella è materia per romanzieri. Chi scrive romanzi può sempre nascondersi dietro la pretesa della narrativa. Può giustificarsi, sostenere di non aver fatto o detto ciò che fanno i dicono i suoi personaggi».
Mi fa pensare a Philip Roth…
«Naturalmente. Lui è stato l’incarnazione vivente di questo fenomeno. Nathan Zuckerberg era molto evidentemente lui stesso. Il personaggio è una maschera trasparente, ma è pur sempre una maschera, un modo per non prendersi le responsabilità».
Avevate lo stesso analista, vero?
«Sì, il dottor Kleinscmmidt. Lui potrebbe scrivere diversi romanzi su tutti noi senza nascondersi dietro il plexiglass».
Pensa che la scrittura sia una forma di autoanalisi?
«Per molti lo è, ma non funziona. Mettere in pagina le proprie ansie è un buon esercizio, ma quando diventa autoassolutorio perde completamente la propria efficacia – e capita immediatamente, perché dal momento che tiriamo fuori quello che abbiamo dentro ci sentiamo liberati, solo che essere gli unici consapevoli dello sforzo finisce per interrompere la riflessione».
Ed è vero anche per la saggistica?
«Assolutamente. La saggistica personale esiste nel reame del privato in maniera molto più audace e completa di qualsiasi altra forma. In quello che faccio metto me stesso, la mia famiglia, il mio intorno, i miei affetti, senza alcun tipo di filtro».
Sembra un esercizio pericoloso. Si è mai messo nei guai?
«Certo. Mia moglie e i miei figli hanno giurato che non appena sarò morto pubblicheranno dei memoir crudeli su di me per farmela pagare. Hanno già anche dei titoli. Mio figlio lo chiamerà Dall’altra parte della luna, e mia moglie E non è nemmeno davvero canadese».
È vero?
«Sono nato negli Stati Uniti e cresciuto in Canada. Mi piace farmi passare per canadese perché mi rende una figura distinta, specie di questi tempi».
Quindi è già nei guai…
«La scrittura è sempre una transizione morale, che si stia scrivendo una notizia di cronaca o una poesia intimista. Quando scrivi degli altri scrivi di te stesso. E non si può risolvere con la narrativa. La famiglia di Roth non ha mai trovato sollievo nel fatto che la sua fosse "soltanto" narrativa».
Poi ci sono scrittori che si mettono nei guai sui social, penso a J.K. Rowling.
"Affaire", appunto. Gli adulti dovrebbero saper contare fino a due: uno, chiunque non si senta di appartenere al proprio genere di nascita – fenomeno relativamente raro ma ben comprensibile – dovrebbe essere trattato con tutto il rispetto, la compassione e le cure mediche di cui necessita; due: il dimorfismo sessuale esiste in natura e non dovrebbe essere cancellato dall’ideologia. Sono due realtà inconfutabili e contemporanee».
Ma il messaggio spesso non passa in questo modo…
«La cosa strana è che adesso insegniamo ai nostri figli che la sessualità si manifesta attraverso uno spettro di possibilità molto più ampio che quella costretta dal semplice "etero-" o "omo-", eppure le persone trans possono affermarsi solo in un genere o nell’altro. L’identità sessuale, così come l’appetito sessuale, si declina in una vasta gamma di possibilità. Il fondamento della biologia darwiniana è che non esista creatura, specie o genere che si manifesti in natura in forma immutabile o "pura". La vita è mutamento e la biologia è una questione di generiche norme e infinite variazioni. Dovremmo rispettare entrambe queste verità».
La giornalista del New York Times Pamela Paul ha paragonato la faccenda Rowling all’attacco subito da Salman Rushdie. Che ne dice?
«Non hanno niente a che vedere. La penna non ferisce sempre più della spada, soprattutto se il coltello è reale. Dovrebbe esistere un limite all’accettabile anche in ciò che si afferma (si aggira attorno al negazionismo dell’Olocausto, credo), ma di ciò che ha detto Rowling non c’è niente che si avvicini a quel confine. Si può non essere d’accordo, ma affermare che l’identità sessuale delle persone sia determinata biologicamente non è come ordinare la persecuzione di coloro che lo negano, come fanno ora molti repubblicani».
Al di là della ricerca personale, esiste uno scopo nell’esercizio della scrittura?
«Combattere. Contro l’incarcerazione di massa, per il controllo delle armi, contro Trump e la cattiva politica. E poi rendere pubblica la vita privata. Tutti viviamo le stesse vite e se lo scrittore ha la possibilità di restituire qualcosa attraverso il suo talento, questa è l’evidenza che esiste una condizione comune».
L’universalità individuale.
«Esatto. Sto lavorando alla mia prima raccolta di saggi brevi e la intitolerò – non l’ho mai detto a nessuno – Il mondo è fatto di stanze. È la premessa fondamentale di tutto il mio lavoro: il mondo è la somma di tutte le stanze che abitiamo singolarmente. Se vogliamo comprenderne il funzionamento dobbiamo fare attenzione alle singole personalità, non alle leggi sociali».
Nel suo ultimo libro, The Real Work, esplora l’abilità pratica. Pensa che la scrittura si padroneggi attraverso l’esercizio come l’ artigianato?
«Certo. Più scrivo, più amo scrivere. Eppure, la mia è una battaglia contro le parole nella quale le parole, inevitabilmente, finiscono sempre per vincere e trovare la loro strada verso la pagina – per fortuna, direi. Non sono un maestro della parola ma sono ossessionato dall’arte della scrittura. Per questo ho indagato l’abilità di chi si dedica ad altre arti, i cui prodotti sono più tangibili, per comprendere la natura della mia stessa ossessione».
Cosa prende dal mondo di fuori?
«Sono appassionato di antropologia urbana. Sto a mio agio nei microcosmi».
Come concilia questa attenzione al dettaglio con le questioni globali?
«Uno scrittore deve sempre operare su due piani: come cittadino e come artista. Ogni piccola realtà ha il potere di influenzare il resto della società, per questo è sbagliato ignorare il particolare per rivolgersi all’universale».
Si fida ancora della politica?
«Sono disperato. Le democrazie non guariscono dal totalitarismo una volta che lo hanno sperimentato. L’ho scritto nel 2016 e ne sono ancora convinto, è quello che stiamo vivendo. Trump ha deteriorato le istituzioni a tal punto che si è delineata una sorta di anarchia lucida per la quale tutto è possibile e non c’è più bisogno di rispondere alle istituzioni. Ognuno fa per sé e crede di far del bene».
E non è un sistema che si può riparare?
«Non credo. Joe Biden può averci messo una pezza, ma non durerà e non è efficace perché il popolo ha smesso di credere nella politica, nell’efficacia e nell’utilità delle regole sociali. Gli è stato insegnato che si può prendere l’iniziativa senza essere preparati o titolati: una visione corrotta della libertà personale».
Questo la porta a non credere più nemmeno nella libertà?
«Credo nelle istituzioni liberali: le università, le piazze, i ristoranti, i Social Network – queste istituzioni virtuali che abbiamo scavato quando non c’era più spazio in quelle fisiche-, Central Park. Sono queste le fondamenta, fisiche e concrete, della democrazia liberale».
E crede siano in pericolo?
«Lo sono sempre state. Oggi il populismo di Trump o Beppe Grillo le corrompono e le trasformano in una versione degradata del ruolo che ricoprono, ma prima era il totalitarismo marxista, o l’autoritarismo fascista. Gli spazi comuni, come le zone di confine, sono sempre state territorio di conquista dalle parti estremiste e intellettualmente siamo sempre in guerra contro il deterioramento dei valori. Lo sforzo sta nel rimanere vigili e forse quello che si sta perdendo è l’attenzione, che sta scemando in uno stato di stanca rassegnazione. Occorre difendere le istituzioni liberali senza transennarle».
Con l’affermazione della libertà di espressione, per esempio. Esiste ancora?
«L’America è ancora un Paese nel quale le idee vengono apertamente dibattute, quindi sì, decisamente. Se il dibattito degenera, come spesso accade, occorre ricordare che le buone maniere sono solo la superficie della moralità, non il suo fulcro. Certo, il fatto che personaggi come Rupert Murdoch siano proprietari di canali di pseudo-informazione e che questi si moltiplichino è preoccupante. Ma possiamo tornare a essere veramente liberali, basta crederci».
Mica facile.
«È per questo che ammiriamo chi ha l’integrità di resistere senza sposare una fazione: Albert Camus, George Orwell, Umberto Eco. Comincia tutto dalla propria stanza e dal ruolo che ha nella propria città, e così torniamo all’inizio».