Corriere della Sera, 31 marzo 2023
Biografia di Marco Masini raccontata da lui stesso
Gli «schiacciata party» di Castiglioncello.
«Ogni estate noi quattro bischeri ci si ritrova a casa di Carlo Conti. Io, lui, Giorgio Panariello e Leonardo Pieraccioni. A mangiare focaccia all’olio sfogliando i giornali sportivi con le dita unte, discutendo delle amichevoli d’agosto e degli affari più improbabili del calciomercato. E il più scatenato del gruppo sono proprio io».
Quello di «quando sei disperato/ come me senza te», lo stesso di «È la malinconoia/ che uccide a questa età/ è il cuore che si scuoia/ cercando quel che ha già» è quindi l’allegrone della compagnia?
«Eh già. E pure quello che racconta le barzellette, che arriva sempre tardi, che non vuole mai andare a letto, quello che più mi prendono per il c... e più mi diverto, noi toscani siamo così. Carlo è il più saggio. Leonardo, che sembra non prendere mai niente sul serio, invece ha una grande sensibilità».
E Giorgio?
«Milanista sfegatato, ad ogni Milan-Fiorentina ci prendiamo in giro fino alla morte. Però di calcio ne capisce, il ragazzo è competente. E poi Giorgio è molto sensibile, ha passato momenti difficili con suo fratello ed è stato uno dei primi a starmi vicino quando ne ho avuto bisogno, riesce sempre a sdrammatizzare e questo aiuta».
Vi conoscete da una vita.
«Io e Carlo dal 1980, ci siamo incrociati nelle radio private, quando faceva il dj. Scrisse un pezzo per la sigla del programma: “It’s okay it’s all right”, che arrangiai io».
E come andò?
«Beh, chiedetelo a lui(ride). Però i miei veri amici sono anche Riccardo il ferramenta, Giuseppe il rappresentante e Giacomo il parrucchiere, c’erano già prima di Carlo, Leonardo e Giorgio e ci saranno sempre».
Mollò un ceffone a suo padre Giancarlo.
«Lo sbaglio più grande della mia vita. Avevo 18 anni, volevo andare a suonare con la band, sarei stato fuori per tanti giorni, viaggiando in auto di notte. Papà aveva paura. “Tu non ci vai”. “Io fo quel che mi pare”, urlai. E prima che lo facesse lui, gli diedi quello schiaffo. Rimase immobile, incredulo. Non mi punì nemmeno e fu quasi peggio. Gli ho chiesto scusa tante volte, però il rimorso mi resta ancora dentro».
Eppure eravate molto legati, tra sentimenti opposti («Eri il mio più grande eroe/Eri il primo vero amico/Eri assente e irraggiungibile/ Io ti odiavo e te lo dico», da «Caro Babbo»).
«Papà faceva il rappresentante di prodotti per parrucchieri, spesso lo accompagnavo nei suoi giri: era capace di entrare in un negozio per un caffè e uscire con 700 mila lire di ordine. Io stesso ho frequentato un corso tecnico su permanenti e colore».
E si è mai cimentato?
«Non ho mai tinto i capelli a nessuno, tantomeno i miei, però in caso sarei in grado. Nella mia vita ci sono stati tre “Giancarli” importanti, il primo era lui».
Gli altri due?
«Bigazzi, produttore discografico e paroliere. E Antognoni, la bandiera della mia Fiorentina. Siamo amici, gli dico sempre: “Oh, sei l’ultimo Giancarlo che mi è rimasto, non fare scherzi”».
Quante pazzie ha fatto per la Viola?
«Qualche schiaffo l’ho preso. Trasferte impossibili, freddo, treni regionali strapieni, in quattro in una singola più i tamburi, perché ero capo tamburino».
Sognava di diventare calciatore?
«No, mi sono accontentato di giocare per la nazionale cantanti, mezzala destra».
I primi concerti.
«Nelle piazze, nei paesi, alle fiere. Una volta arrivammo in ritardo perché sulla strada c’erano tre tori che non volevano spostarsi».
Nel 1987 fece da voce guida per «Si può dare di più» del trio Morandi, Ruggeri, Tozzi.
«Nello staff di Bigazzi, curavo gli arrangiamenti, ero il più intonato, perciò Giancarlo mi chiese di cantarla, per sentire com’era la melodia».
Nel 1990 vinse il Festival di Sanremo, categoria Nuove Proposte, con «Disperato».
«Vendetti 850 mila copie, tantissime. Però non me la sono goduta come avrei dovuto. Purtroppo gli anni più belli e felici sono anche quelli consumati più in fretta. Sul momento non apprezzi ciò che hai, se li potessi rivivere sarei diverso».
Incontri vip nel backstage del suo primo Festival?
«Non tanti, perché eravamo tutti esordienti. Però ho conosciuto i Pooh, che vinsero con “Uomini soli”. Mi hanno incoraggiato come degli zii, sono tuttora dei fratelli maggiori. E mi hanno insegnato dei trucchi per stare sul palco.
Quali?
«Non si svelano».
L’anno dopo arrivò terzo tra i Big con «Perché lo fai», dietro Riccardo Cocciante e Renato Zero.
«Renato fu carinissimo, un amico anche lui. Mi disse: “Se io smetto, continui tu per me”».
Ma sono tutti amici suoi?
«Molti. Di recente ho legato con Francesco De Gregori, simpaticissimo. Sono stato a vederlo in concerto con Venditti. Mi ha riempito di complimenti, quella sera sono andato a letto felice. Con Antonello ci conosciamo dagli anni ‘90».
Cantava storie tristissime: «Perché lo fai, disperata ragazza mia/ perché ti sdai, come un angelo in agonia».
«Mi accusarono di parlare di droga senza competenza. In quel periodo ricevevo 400 lettere al giorno, in molte c’era scritto: “Sai Marco, dopo averti ascoltato, da domani provo a smettere”. La musica è un linguaggio universale, ero contento di poter fare qualcosa di buono per gli altri».
Dopo di che inanellò altri successi ma con titoli poco televisivi o radiofonici: «Vaffan...o» e «Bella str..za».
«Erano mooolto televisivi invece. Pippo Baudo ci giocò e su Raiuno mi presentò di getto: “E ora Marco Masini Vaffan...o!” All’inizio le radio mi censurarono, poi una sera a mezzanotte Radio Italia, la più conservatrice e politicamente corretta, lo mandò in onda. E da lì tutte le altre».
Chi era la bella str..a? Era forse dedicata a una ex?
«Non ho mai dedicato canzoni a nessuno, scrivo e canto le storie di tutti. Comunque chi nella vita non ha mai incontrato una bella str..a o un bello str...o?»
In effetti. «Ci vorrebbe il mare per andarci a fondo». «Se la malinconia con tutti i suoi ghiacciai/ti paralizza il cuore/se tutti questi se/ li senti dentro te/hai voglia di morire». Fu dopo versi così che cominciarono a girare le voci assurde che lei portasse sfortuna. Nel 2001 annunciò che non avrebbe cantato più: «Non mi rovineranno la vita come a Mia Martini».
«Non volevo ritirarmi, solo avvisare i miei fan che non era colpa mia se non mi si vedeva più in giro. Le tv non mi volevano ospitare. Quelli della mia casa discografica mi comunicarono: “Ci spiace, ma sei un prodotto invendibile”».
Chi era stato a far partire la vergognosa catena?
«Un addetto ai lavori. Lo stesso che, ogni volta che mi si nominava, faceva le corna o altri scongiuri. I colleghi, gli amici, per fortuna mi sono rimasti vicini. Eros Ramazzotti è tra quelli che più mi hanno difeso».
La musica è un ambiente particolarmente cattivo?
«No, è come tutti gli altri. E in ogni campo quel che ti succede dipende anche da te».
Non vorrà mica dire che è stata colpa sua.
«Qualche sbaglio posso pure averlo fatto. Nella scrittura, nel modo di socializzare. L’ho capito e sono cambiato. Mi sono evoluto. Non è stato facile, però avevo la certezza che il tempo aggiusta tutto. C’è chi non arriva a fine mese, quelli sono problemi, io nel complesso mi ritengo molto fortunato».
Il suo peccato di vanità sono stati i capelli.
«Ho cominciato a perderli da ragazzo, quando facevo il servizio militare nella Vam, la vigilanza dell’aeronautica, per colpa dell’elmetto stretto. Non ho fatto il trapianto, ma un rinfoltimento con capelli artificiali, sono giapponesi, tengono fino a 80 kg di strappo».
Della sua vita amorosa si sa poco.
«E continuerete a saperne poco. Ho una compagna da qualche anno, punto e basta».
Ci faccia un riassunto.
«Non mi sono fermato, sistemato, non ho famiglia. Ho amato e sono stato amato, ho tradito e sono stato tradito, ho lasciato e sono stato lasciato».
Qual è più facile, delle ultime due?
«Da giovane si è più bravi a lasciare, dopo c’è sempre l’affetto e quindi diventa più complicato. L’ultima che mi ha lasciato mi ha fatto un favore, risparmiandomi di doverlo fare io».
Ha avuto anche lei le sue groupie, ammiratrici pronte a tutto?
«Anni fa sì. Una volta me ne trovai una in casa, alle quattro di notte, che dormiva nel mio letto. Sul momento, stanco com’ero dopo il viaggio, credevo di essere in hotel e di aver sbagliato stanza. Era entrata da un buco nella recinzione, scavalcando la finestra».
Che cosa le ha detto?
«Scusa ma questa è casa mia, è stato un piacere, ora però ti chiamo un taxi, pago io, e te ne vai».
È in tour per i suoi oltre 30 anni di carriera (sono 33). Rifarebbe tutto, nel lavoro e nella vita?
«Sì. A parte quello schiaffo al babbo. E non andrei a suonare la sera che è morta mia mamma Annamaria. Avevo 18 anni e di lei mi resta un ricordo sbiadito ma dolcissimo, è stata un angelo che mi ha salvato tante volte e mi salva ancora. Stava già male, ma avevo un concerto alla Bussola di Chianciano Terme. Ho rispettato l’impegno. La più grande caz...ta della mia vita».