Corriere della Sera, 31 marzo 2023
Parla Faustino Coppi
Angelo Fausto Coppi, detto Faustino, il ricordo di suo padre com’è cambiato nel tempo?
«È il ricordo di un figlio che aveva 4 anni e mezzo quando è morto il suo papà. La sorpresa è che questo ricordo viene alimentato dalle memorie degli altri. C’è sempre un’occasione per rivivere il passato e per correggere qualcosa. Oggi ho 68 anni e vengo sempre gratificato da quello che ancora succede intorno a mio padre, anche se non ho nessun merito».
Quel che si dice un mito.
(Ride) «Sempre giovane, sempre forte e sempre vincitore. Il mito però di solito non gode dello stesso affetto e della stessa gratitudine. In Veneto un suo ammiratore mi ha raccontato che dopo averlo visto passare sulla strada per l’emozione rimase a letto con la febbre per tre giorni».
Come ha vissuto la vita da figlio del Campionissimo?
«Io sono un tipo riservato e faccio la mia vita, ho il mio lavoro nei cantieri edili, ma è logico che tutti i giorni il ricordo di papà viene fuori in qualche modo. Da piccolo non sapevo bene chi era mio padre, e crescendo continuavo a non capire l’interesse verso di me e verso mia madre, visto che tutto era finito. Venivano fotoreporter, come oggi possono fare solo con un cantante, un attore, un atleta famoso. Ma io non sono lui, e in fondo non sono niente e nessuno».
Immagini di suo padre?
«Quando tornava dalle corse e mi portava i giocattoli, quando in giardino mi insegnava a stare in equilibrio sulla bicicletta senza le rotelline o quando faceva le grosse colazioni prima di partire per gli allenamenti, il tavolo pieno di roba da mangiare. Tanti flash, ma non ha fatto in tempo a raccontarmi le imprese della sua vita. È difficile mettere insieme le cose, anche aiutandosi con le fotografie».
L’ultimo flash?
«Era stato portato giù in barella dalle scale, era fermo davanti alla porta di casa e mi disse: Papo, non fare arrabbiare la mamma… Per giorni non ho più saputo che fine aveva fatto. Mia mamma ha avuto una crisi, è finita in ospedale. Da allora ricordo soltanto il vuoto, l’assenza di tutte le persone care».
Lei è nato a Buenos Aires?
«Sì, per poter mantenere il cognome Coppi. Per partorire, mia mamma è salita in aereo con la moglie del meccanico della Bianchi, il Pinetta. Era stato un amico argentino, il ciclista Jorge Batiz, a favorire la cosa. Siamo poi tornati in Italia in nave, sulla Giulio Cesare. Per la legge italiana, fino al ’78, mi chiamavo Locatelli, come il marito di mia mamma, Enrico Locatelli, che non mi ha disconosciuto. Grazie al passaporto argentino ho fatto le scuole come Coppi».
Cosa successe dopo la morte di suo padre?
«Con mia mamma in ospedale, si era pensato addirittura che io non potessi stare con lei e che suo marito, avendo la patria potestà, potesse disporre anche di me. Poi mia madre si è ripresa, un giorno mi porta al cimitero e mi dice che quella è la tomba di mio papà. Diceva che l’ho abbracciata senza dire niente».
Quali persone vi furono vicine in quel momento?
«Mia mamma era napoletana e non ho conosciuto i suoi genitori. Da parte di papà c’era nonna Angiolina, molto affezionata a mia madre. Andavamo tutti i sabati a trovarla a Castellania, dopo essere stati al cimitero. Una mattina, andando al cimitero a trovare suo figlio, è morta. Mia mamma si era inventata un maglificio e quel giorno eravamo alla Fiera Campionaria di Milano. L’abbiamo saputo la sera arrivando a casa».
Le sono rimasti oggetti cari di suo padre?
(Ride) «Qualche cosa… L’ultimo regalo che mi ha fatto a Natale, il Natale del ’59, è stata una banconota da diecimila lire, grande come un fazzoletto. È ancora su una parete nella nostra casa di Novi».
Lei ha sempre abitato lì?
«Sì, quella casa è tutto. Tutti gli affetti sono lì, piena di ricordi di mio papà, foto dappertutto di lui e di mia sorella Lolly che è morta nel 1971. Mia madre aveva questa mania. Ora ho due figli e sono cambiate un po’ le cose. Ma le stanze sono sempre quelle: la camera di mia mamma, quella dove dormivo io, quella dove papà faceva i massaggi… ».
Lolly abitava con voi?
«Mia mamma aveva avuto due figli dal primo matrimonio con Locatelli: Maurizio e Loretta, detta Lolly, che abitava con noi a Novi. Morì per un brutto male. Fu un dolore enorme, mia madre andava due volte al giorno al cimitero a parlare con lei. Diceva sempre che con mio papà aveva passato gli anni belli, e che per quella felicità ha sofferto per il resto della vita. Ma diceva che avrebbe rifatto tutto».
Che tipo era sua madre, Giulia Occhini?
«Dolce e possessiva, con un carattere forte, ha dovuto fare anche da padre, mi ha tirato su lei e mi ha insegnato i valori della vita. Aveva una grinta incredibile, quella che io non ho. Quando aveva qualcosa in testa, nessuno la fermava: se voleva andare a parlare con Agnelli, telefonava e andava».
Sua madre fu chiamata la Dama Bianca. Cosa le raccontò di quella storia?
«Allora era difficile lasciare una famiglia per farsene una nuova. In più, mio padre era famoso e finirono nell’occhio del ciclone. A lui fu ritirato il passaporto, che gli serviva per lavoro, e mia mamma fu chiusa in carcere ad Alessandria e poi ad Ancona in domicilio coatto. Una sofferenza vissuta con amore... per cose che oggi farebbero ridere».
Si sposarono di nascosto?
«Sì, a differenza di quel che si dice, mio padre era molto religioso. Mia madre mi ha raccontato che avevano trovato un frate disposto a sposarli in una chiesa qui in zona».
La morte di sua mamma?
«Era in auto, il 3 agosto 1991 fu travolta davanti al cancello di casa da una macchina che andava a 200 all’ora. Ero in vacanza, quado sono tornato, ho fatto in tempo a leggere sulle sue labbra: ti voglio bene. Al centro di rianimazione a Novara, sbagliarono una tracheotomia e morì dopo un anno e mezzo di coma. Mia mamma era tutto: morta lei, è morto di nuovo anche mio padre».
Perché è morto di nuovo?
«Lei era anche il ricordo di mio papà. Non c’era un giorno che non parlasse di lui: cosa faceva, dove andava, cosa diceva, i suoi modi di fare… Io fino all’ultimo ho sperato che si svegliasse, abbiamo anche chiamato un dottore austriaco dell’equipe che seguì Leonardo David… Sono un po’ sfortunato con i dottori».
Non riconobbero la malaria di suo padre.
«Nessuno aveva capito, malgrado i consulti dei tanti professori che giravano per casa. Una persona che torna dall’Africa, come fai a non pensare che s’è presa la malaria? È andata così».
Cos’è la bicicletta per lei?
«L’ho praticata come fa una persona qualunque, per qualche passeggiata. Il ciclismo è parte della mia vita ma non ci ho mai provato: sarei stato la brutta copia di mio papà».
E i suoi figli?
«Hanno preferito fare altro. Mia mamma diceva che papà non avrebbe mai voluto che patissi quello che aveva patito lui per la bicicletta. Ma se fosse rimasto al mondo, nel giro del ciclismo ci sarei finito in qualche modo di sicuro».
Che aspirazioni aveva suo papà per lei?
«Avrebbe voluto che facessi l’ingegnere. Mi sono iscritto a Genova e ho lasciato dopo due anni. Oggi mi dispiace».
Idee su chi ha passato la famosa borraccia?
«Bartali rispondeva così: “Tu a chi tieni? Se tieni a Coppi la borraccia l’ha passata Fausto, se tieni a Bartali l’ha passata Gino”. Pensiamola così. Infatti Ettore Milano, gregario di mio papà che ha vissuto con noi per diverso tempo, era sicuro che l’aveva passata Coppi, mio padre».