Corriere della Sera, 30 marzo 2023
Manzoni e I Promessi sposi del 1827
Parole e numeri in casa Manzoni non sono proprio mai andati d’accordo. Con i romanzi, soprattutto, dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi sia della cosiddetta Ventisettana che della Quarantana.
Del resto, eran più le parole che i numeri a interessare lo scrittore. Di più: le parole lo coinvolgevano a tal punto che i numeri finivano persino di esistere, come ben dimostrano le vicende dei Promessi sposi, si tratti dei numeri delle date di stampa e pubblicazione (sempre incerte), delle copie vendute, dove costi – crescenti per le mai finite correzioni e variazioni – e mancati guadagni erano una conseguenza.
Si prenda la vicenda della Ventisettana, in questa edizione critica (I promessi sposi. Ventisettana, Casa del Manzoni) mirabilmente ricostruita da Donatella Martinelli con pazienza più che certosina, nei suoi minuti passaggi, cui Manzoni comincia a lavorare non appena decide di metter mano ai fogli del Fermo e Lucia, chiuso il 17 settembre 1823 per una revisione che di fatto si arresta ai primi 8 capitoli nel marzo-aprile 1824, con una prima fase di riscrittura di cui ha dato conto l’edizione critica col titolo Gli Sposi promessi (nel 2012), per poi indirizzarsi alla stesura dal titolo definitivo I promessi sposi. Che approdano a un primo tomo (capitoli I-XI) tra luglio-ottobre 1825 e a un secondo tomo steso di fretta mentre si stampava il primo (capitoli XII-XXIV) chiuso il 26 agosto 1825; e infine al terzo (XXV-XXXVIII), per mesi «addormentato», compiuto a giugno 1827 (ma con data di stampa 1826); e che messi i tre tomi in vendita con una tiratura di mille copie, a fine mese stando alla lettera dell’8 luglio al Fauriel della figlia Giulia, vedono «il lieto successo del libro», superando «non solo la nostra aspettativa, ma ogni speranza; in meno di venti giorni se ne vendettero più di 600 esemplari. È un vero furore; non si parla d’altro».
Mesi creativi, correttivi e compositivi infernali, da far impazzire non solo i tipografi, ma pure gli amici che lo aiutano nella correzione di bozze che vanno e vengono, ricomposte sinché si fa ancora in tempo a intervenire, frutto d’una continua scontentezza da parte di chi è al tempo stesso alla ricerca di una lingua tutta sua e tutta nuova, maturando in itinere soluzioni lessicali, morfosintattiche, grafiche e interpuntive e, pur approdando a «un testo non coerente, per la sua stessa natura di opera che cresce su se stessa senza che Manzoni possa più ritornare sulle parti già composte», risuona «mirabilmente imperfetto», nell’800 preferito alla Quarantana, a partire dagli scapigliati. Un romanzo che al 17 agosto ha «le mille copie tutte spacciate», e al 22 dicembre, stando a Rosmini, conosce ormai «tredici edizioni, credo, e traduzioni in tedesco, in inglese, in francese», spesso travisate e alcune anche illustrate con tavole litografiche. Insomma: se «in tutt’altro paese questa produzione bastava per far la sua fortuna: in Italia il suo profitto fu di lire seimila a stento», «mentre i librai ne hanno guadagnato centomila».
Successo di pubblico, dunque. Non così di critica, stando a Giacomo Leopardi in una lettera da Firenze del 23 agosto del ’27, che confessava «in confidenza che qui le persone di gusto lo trovano molto inferiore all’aspettazione. Gli altri generalmente lo lodano». Le «persone di gusto», cioè i letterati. Del resto, si trattava di un romanzo che, come scriveva «Il nuovo Ricoglitore» a caldo nel giugno, «va contro tutti gli ordinamenti prefati», al punto di decidere di chiamarlo non «romanzo», ma semplicemente «libro». E lo stesso Manzoni era ben convinto di trovarsi, «nel vero, in opposizione con molti, ma non sono con alcun partito. Le mie opinioni solitarie e spassionate potranno ben parere stravaganti o insulse, ma non provocatrici».
Successo di pubblico
«In meno di venti giorni se ne vendettero più di 600 esemplari. Un vero furore: non si parlava d’altro»
Perplessità per la vicenda: di certo, scriveva Tommaseo, «più naturale sarebbe stato, invece di villani, scegliere una famiglia di città, povera, ma gentile»; senza giungere al romano Salvagnoli che nulla salvava in quel romanzo dallo «stile bislacco e pieno zeppo di similitudini sconce, e che in nulla tengono al paragone; di metafore ardite e stravaganti; di parole non italiane, e proprie di un cattivo dialetto», con protagonisti «una fanciulla imbecille, che trema al bene e al male e che crede di aver fatto voto di verginità perché si è messa una corona al collo; uno scimunito lanaro, che mentre dovea fuggire il potente che lo inseguiva, si ubbriaca in un’osteria e a tutti racconta dall’a fino alla z le cose sue».
Ma ancor più la novità di quella lingua da lui vagheggiata tesa alla convergenza di toscano (ricco di umori popolari) e milanese, e che ne fa la «cifra distintiva della Ventisettana». Una lingua in tal senso identitaria dei suoi personaggi e del mondo rappresentato. Quel mondo degli umili offerto in lettura come un romanzo popolare. Una scelta però non solo linguistica, che ha portato Manzoni a riorchestrare il romanzo nel passaggio dal Fermo ai Promessi, dandogli una vera e propria «cornice», della quale mai ci si è resi conto: a partire dalla nuova introduzione che, a differenza di quanto accadeva con le due del Fermo, e in particolare la seconda, più centrata sulle scelte linguistiche adottate, Manzoni riscrive alla luce di un preciso modello, di matrice biblica, chiudendo il cerchio con le righe finali del romanzo riprese non da Fielding, ma dalle ultime battute del Secondo Libro dei Maccabei (testo degno d’essere compreso nel «grande codice» con riferimento al romanzo storico e al quale si rifaceva lo stesso Fielding). Fonte oltre che strettamente testuale, anche e soprattutto concettuale, se da quel finale rivolto al lettore si risale alla introduzione, dove risalta la specularità col testo biblico. Nel quale ci si imbatte in un ripensamento scrittorio, sia pur a ruoli invertiti: dove a operare in questo caso su un testo d’autore è un anonimo redattore di un libro biblico che dichiara di lavorare sopra un’opera già fatta – i cinque libri su Giuda Maccabeo di Giasone di Cirene, oggi perduti —, iniziando a riassumerla, ma ben presto interrompendosi, per spiegare (come nei Promessi sposi) che la sua opera andrà intesa come rielaborazione e semplificazione, richiamando dapprima i lettori e successivamente passando alle concrete scelte operative, sottolineando le rispettive responsabilità, tra fonte e revisore.
Un testo, i Maccabei, che si riaffaccerà anni dopo, nella figura di un untore «martire», ossia «testimone», il giovane Migliavacca, allorché Manzoni, che aveva lasciato per strada l’Appendice storica sulla Colonna infame, ne riscriverà il testo rendendo la Storia della colonna infame parte integrante e indissolubile della Quarantana.
Una riscrittura che, con ben 120 anni di anticipo su Hannah Arendt, consegna al lettore il senso dello «sdegno e ribrezzo» provato da Manzoni di fronte alla banalità che segna il comportamento di quei giudici che, «funzionari del male», trovarono «i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva».