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 2023  marzo 30 Giovedì calendario

Intervista a Massimo Ammaniti

Con quella sua voce di velluto, che applica l’arte della calma come timbro avvolgente del carisma del medico e dello scienziato, Massimo Ammaniti (professore ordinario di Psicopatologia e psicologia dell’Università di Roma e Membro della Psychoanalytical Association) accetta di parlare “In vita veritas”. Ascoltare le analisi di Ammaniti è come inoltrarsi, accompagnati da un grande maestro della psicologia e della psichiatria infantile, nel complesso mondo dell’età dello sviluppo. A ottant’anni, e con la saggezza di una straordinaria esperienza clinica di scienziato della mente, ci offre la sua visione ravvicinata del mondo dei giovani d’oggi. Ammaniti si offre a una riflessione che si può leggere come una cartella clinica del nostro tempo. E del tempo che verrà.
Professore, lei si è occupato di infanzia e di adolescenza. Posso chiederle come è stata la sua?
«Lo racconto anche nel libro Passoscuro. Sono figlio di un pediatra per cui fin da piccolo vedevo i bambini perché mio padre aveva lo studio a casa. Ero abituato al mondo dell’infanzia. Quello che veramente mi ha segnato è il fatto che io avevo 8 anni e una sorella di 6. Era la mia compagna di giochi. L’amavo molto».

Che cosa accadde?
«Ebbe una meningite e tre giorni dopo morì nonostante mio padre fosse un bravissimo pediatra. La vidi quando cominciava ad avere dei mal di testa. Mi è rimasto questo ricordo. Un po’ la sindrome del sopravvissuto che si sente in colpa. Così ho cercato di occuparmi di bambini e poi di adolescenti. Ho cercato di ridare a loro la vita che non ero riuscito a dare a mia sorella».
Una frase indimenticabile della sua infanzia?
«Quando tornavano a casa mia madre e mio padre ed era successo qualcosa, un po’ da vigliacchetto, dicevo: “È stata Pupa”, cioè mia sorella».
La parola più bella?
«Capire gli altri».
La parola che detesta di più?
«Razzismo».
Le bande giovanili rappresentano un problema in pericolosa evoluzione?
«Oggi sono un fenomeno molto diffuso. Ciò che colpisce di più è che prima le bande erano
fondamentalmente maschili, adesso molte sono bande di ragazze. La causa: il baricentro
non è più la famiglia. I gruppi sono diventati il luogo dove gli adolescenti si rispecchiano vicendevolmente, con delle gerarchie. C’è la figura del capo, il branco. Il branco ha bisogno di nemici: i gruppi non sopportano la fragilità e se la prendono con i deboli».
Come sono cambiati i rapporti tra genitori e figli?
«La famiglia è cambiata moltissimo. Il padre non è più la figura che guida. I genitori si trovano
davanti ai figli adolescenti e non sono in grado di fronteggiare le cose: hanno un atteggiamento impaurito e accondiscendente».
Chi e che cosa influenza di più i giovani di oggi?
«I social network sono diventati il loro mezzo di espressione. Durante la pandemia le ore passate davanti allo schermo sono aumentate moltissimo. Diventa un’abitudine che impegna per ore e ore ed è maggiore in quei bambini o in quei ragazzi nei quali c’è una sorta di fragilità emotiva, si produce un distacco dalla realtà. Nei casi più gravi è una patologia, una dipendenza».
Professore, l’uomo è cattivo?
«L’uomo è un animale aggressivo. L’aggressività umana è diversa dall’aggressività animale. L’animale aggredisce per sopravvivere. L’uomo usa la propria aggressività e la propria violenza per sopraffare l’altro. Temo che l’uomo sia un animale pericoloso, che può arrivare addirittura a distruggere sé stesso».

Baby violenti, Ammaniti: «Giovani,senza una guida cercano il branco: disagio crea aggressività»
Che cosa ha imparato in tanti anni di professione?
«Riconoscenza per quello che mi hanno insegnato i pazienti».
Come si fa a capire il prossimo?
«Ci sono due strade: l’empatia, risuonare con lo stato d’animo dell’altro. Poi esiste un meccanismo più complesso che si chiama intersoggettività, la capacità di capire l’altro collocandolo nella sua dimensione esistenziale».
La fiducia è un atto di fede spesso deluso?
«Alle volte si, anche se gli adolescenti si fidano quando l’adulto si mostra per ciò che è. Diceva un grande psicanalista, Winnicott, che il problema non è tanto degli adolescenti ma degli adulti: se sono abbastanza sani da sopportare l’adolescenza dei figli».
Che cosa risponde a un giovane che le chiede il consiglio per la vita?
«Essere curioso e di sapersi meravigliare».
Tra i giovani italiani quali sono i sentimenti prevalenti?
«Delusione nei confronti degli adulti. Spesso giustificata».
E verso le istituzioni?
«Credo di grande svalutazione. I giovani italiani se ne vanno all’estero per trovare lavoro.Un’emorragia drammatica. Siamo una società che non investe sui giovani e molti di loro sono costretti a fare dei lavori precari senza senso».
Che cosa la fa ridere?
«Le frasi paradossali».
Che cos’è la gelosia?
«La gelosia è un sentimento complesso che purtroppo dobbiamo subire».

Violenza contro le donne: si può arginare?
«Temo di no».
C’è qualcosa, nel tempo in cui viviamo, che le crea, angoscia, paura?
«La guerra nucleare. È qualcosa che viviamo tutti soprattutto se, come singoli, non siamo in grado di intervenire su nulla mentre succedono cose nel mondo, soprattutto riguardo alle grandi potenze. Noi siamo totalmente impotenti. Questo produce angoscia».
Quale è il suo segreto per la felicità?
«La parola felicità fa paura, forse perché è diventata uno slogan. La felicità non può essere un investimento per la vita. In alcuni momenti uno prova felicità e questo può essere legato ad un’amicizia, ad un amore, ad un quadro. Sono attimi. I miei sono stati momenti di grande intensità: un’uscita dai confini quotidiani».
Lei che cosa ha fatto per dare un senso pieno alla sua vita?
«Mi sono molto occupato degli altri. Sia nello studio, nelle mie ricerche, e dei bambini irrecuperabili, cercando di dimostrare che l’irrecuperabilità non esiste».
C’è un bastone psicologico che ci aiuta nella vecchiaia?
«La vecchiaia è una grande occasione perché aiuta a rivedere la vita, a rileggerla anche da una certa distanza, a ritrovarne forse anche il senso e il filo che l’ha tenuta».
Che cosa pensa dell’amore?
«L’amore è come un ciclone stupendo. Anche molto pericoloso».
Il dolore, c’è un modo per affrontarlo?
«Il dolore è molto difficile da sopportare e a volte può essere così forte da travolgerci e da non farci più pensare».
Suo figlio Niccolò, una grande realtà nella letteratura italiana, che rapporto ha con lui?
«Di grande amicizia, di affetto, di condivisione. Ci parliamo molto spesso».
Suo figlio la critica?
«Quando era adolescente io ero un padre che voleva che si impegnasse, studiasse, lui mi rispondeva: “Lo sai che faccio? Mi suicido, così ti distruggo professionalmente”. Questo è un tratto di Niccolò e del suo essere paradossale».
La morte, ci pensa?
«Sì, negli ultimi anni sempre più spesso. E ne ho paura. Si può morire in tanti modi, quello che spero è di esserne consapevole».
Che cosa le piacerebbe sapere di aver lasciato di sé?
«Mi piacerebbe che le persone si potessero ricordare, ogni tanto, di quello che ho fatto. Della mia figura. Questo mi basterebbe».
Chi è davvero il professor Massimo Ammaniti?
«Una persona che si è occupata degli altri. Alle volte molto ansioso, desideroso di essere accettato. Molto curioso e incapace, soprattutto intellettualmente, di ripetere le solite cose che uno ha imparato dal passato, desideroso di andare al di là dei limiti».