il Giornale, 30 marzo 2023
Intervista a Nicolas Mathieu
Con E i figli dopo di loro (Marsilio 2019), un romanzo di quasi cinquecento pagine sulla adolescenza e sulla vita nella Francia della sua Lorena, Nicolas Mathieu ha vinto il Premio Goncourt 2018. Nato a Épinal, vicino a Nancy, nel 1978, dopo avere vissuto e lavorato a Parigi, Mathieu è tornato ad abitare a Nancy. Da qui racconta il mondo della Francia periferica, degli adolescenti e, soprattutto, dei quarantenni (incarnati da Hélène, donna di successo che ritorna in provincia, e Christophe, che non se ne è mai andato), in La canzone popolare (Marsilio, pagg. 456, euro 21, traduzione di Margherita Botto). Titolo originale: Connemara, dalla canzone Le Lacs du Connemara di Michel Sardou. Ne parlerà a Venezia, al festival Incroci di civiltà, domani 31 marzo (Auditorium Santa Margherita, ore 15).
Nicolas Mathieu, i suoi sono proprio dei romanzi, in senso classico.
«Sì, io credo nel romanzo. Ho provato a scrivere di me, ma il risultato era noioso... Ho cominciato a scrivere bene quando ho smesso di usare il pronome io. Questo mi consente di avere una distanza, un punto di vista migliore per considerare la società».
Perché il titolo, Connemara?
«È una canzone famosissima in Francia, familiare per tutti i lettori. È molto, molto popolare, si suona ai balli e ai matrimoni, così come alle feste delle business school più prestigiose. Simbolicamente si ricollega alla storia del libro: unisce tutti i francesi, è comune a tutti i ceti, anche se non è ascoltata con le stesse orecchie durante un matrimonio o una di quelle feste...».
Che altro rappresenta?
«Anche per me è simbolica. Usarla come titolo per il libro che segue il Goncourt significa: rimango dalla parte del popolo».
Qual è la Francia di cui parla? È la sua?
«Effettivamente è la Francia dove sono cresciuto e abito tuttora, dove non ci sono grandi metropoli cosmopolite o periferie con i soliti problemi, ma in cui vivono le popolazioni più povere, con un po’ di campagna: la Francia dei più, ma di cui non si parla granché».
Chi sono le persone che la abitano?
«C’è grande differenza fra i protagonisti. Hélène e Christophe non appartengono allo stesso mondo, e ci sono persone che hanno problemi economici, altre che non ne hanno; ma il punto, tipicamente francese, è che queste persone non sono parigine, non appartengono al centro della Francia».
Che significa?
«La Francia è organizzata intorno a un centro, la capitale. La parte essenziale del potere politico, economico e culturale è concentrata lì: intorno è un altro mondo. Nelle rappresentazioni culturali, l’accento è sempre su Parigi; io propongo un’altra visione della Francia. Naturalmente, questa Francia è molto diversa, a seconda che sia quella del Sud Ovest, o quella del Nord Est: ma sono le zone in cui si è sviluppata di più l’estrema destra, perché hanno sofferto della deindustralizzazione e della globalizzazione».
C’è un senso di rabbia nei personaggi?
«Sì, certo. Il romanzo si apre con quella che possiamo chiamare l’ira di Hélène, come l’Iliade inizia con l’ira di Achille... Credo che le frustrazioni e i dispiaceri subiti dalla società possano trasformarsi in rabbia. La domanda è se questa rabbia sia solo negativa, o se possa diventare un carburante, uno stimolo per i protagonisti».
Per lei?
«Naturalmente il mio modo di scrivere si allaccia a questo senso di rivalsa sulla vita, sul mondo, e sulle cose che passano: anche a me la società ha fatto subire dei dispiaceri, e questa sensazione si è trasformata nell’energia per diventare scrittore».
Si riferisce ai suoi molti lavori a Parigi?
«Certo, mi riferisco anche alle esperienze nel mondo del lavoro, ma sono tante le cose che ho subito. Per esempio ho fatto degli studi lunghissimi, che non sono serviti a nulla: un altissimo livello culturale a cui corrispondevano lavori sottopagati... Questo crea rabbia, come prova rabbia Christophe, quando vede che il figlio viene allontanato da lui, o che il padre invecchia. E ci sono delle ferite provocate dal tempo che passa. Ma, per fortuna, c’è la scrittura, che può parlare di queste sofferenze, e dare loro un senso».
Qual è il ruolo della letteratura?
«È un modo per rendere la vita più vivibile e il mondo più praticabile. E mi aiuta a pensare: io non sono l’intellettuale che pensa; è perché scrivo, che riesco a pensare. D’altronde, di fronte al tempo che passa, la letteratura ci permette di fissare gli affetti, le storie, i mondi e tutto ciò che conosciamo e di condividere questa esperienza: ci consente di lottare contro questo scorrere del tempo e questo rischio di dimenticanza».
Trattare il tema dell’adolescenza e dell’amore in modo letterario non è facile.
«Non voglio fare giochetti, ma questo tema è sorto, un giorno, quasi contro la mia volontà. Forse perché io stesso non ho risolto tutti i problemi legati all’adolescenza... Un periodo centrale, in cui si forma il nostro modo di pensare e di amare e in cui puoi provare gradi di intensità che non si vivono mai più dopo».
Come lo ha affrontato?
«Penso attraverso il movimento della scrittura stessa: scrivendo si può ridiventare quello che si è stati, così come diventare un altro o un’altra; e può risorgere quello che abbiamo provato».
Come nasce il suo linguaggio, che alterna i dialoghi a descrizioni anche molto lunghe?
«Il mio stile nasce da un continuo andirivieni fra poli opposti, da frasi molto elaborate a momenti diretti, da brani popolari a passaggi sofisticati. Questa lingua riflette i due mondi in cui vivo io stesso, quello da cui provengo e quello a cui sono approdato: io vivo fra due lingue, quella popolare, la mia lingua madre, e quella delle scuole, che si studia».
La Francia di cui racconta è quella che trionfa, quella che fallisce, o qual è?
«L’idea di questo romanzo mi è venuta mentre presentavo il precedente. Molti lettori mi dicevano: ma i protagonisti sono dei falliti... Allora mi sono chiesto: che cos’è una vita che valga la pena di essere vissuta? Hélène ha avuto tutto, ha raggiunto tutti i suoi scopi negli studi e nel lavoro, eppure ha una certa amarezza. Christophe ha avuto meno successo sociale, ma è stato capace di costruirsi una rete di affetti».
C’è anche un aspetto politico.
«Il romanzo si svolge durante la campagna elettorale del 2017, che si è conclusa con la vittoria di Macron e che ha visto fronteggiarsi due tipi di Francia: quella che poteva approfittare dello stato delle cose, equipaggiata con i diplomi e poliglotta, contro un’altra più ostile a questo mondo. E la relazione fra Hélène e Christophe riflette un po’ questi due tipi di Francia».
Ha dei modelli letterari?
«Molti. Tutti appartengono alla genealogia degli autori realisti, da Flaubert a Annie Ernaux, passando per Georges Perec. Amo anche i romanzi americani, il piacere di raccontare storie piene di piccoli particolari e di gente normalissima. Senza dimenticare le serie tv e il cinema. Per me I Soprano hanno avuto altrettanta importanza di Flaubert».