il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2023
La convenzione di Dublino
Se ne parla ormai da trent ’anni, la situazione diventa ogni giorno più drammatica, incombe una catastrofica ondata dalla Tunisia, ma il Moloch di Bruxelles non riesce ancora a sciogliere il nodo cruciale che favoreggia l’i mm igraz io ne i n c o n t r o l l at a. Si tratta del “primo approdo” o “pri – mo ingresso” ed è il cardine su cui s’impernia la Convenzione di Dublino, siglata nel 1990 dall’Italia sotto il sesto governo Andreotti e ratificata dal Parlamento nel ’92 durante il primo governo Amato. U n’ered ità velenosa della vituperata Prima Repubblica, insomma. Neppure un vero e proprio Trattato, come viene generalmente denominato: semmai un Regolamento con cui si stabilisce il principio umanitario che un “richiedente asilo”dev ’essere accolto e assistito dal Paese in cui arriva. Oggi, dopo le conferme e le parziali modifiche sottoscritte nel corso degli anni dai governi di centrosinistra e centrodestra, è necessario trovare una soluzione per superarlo e attutire l’impatto dei flussi migratori via mare che investono le nostre coste come uno “tsunami”. L’accordo entrò in vigore il 1° settembre 1997 per i primi dodici Stati dell ’Ue che insieme a noi l’avevano sottoscritto: oltre all’Italia, il Belgio, la Danimarca, la Francia, la Germania, la Grecia, l’Irlanda, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, il Portogallo, la Spagna e il Regno Unito. Ma il paradosso è che a quell ’epoca, quando il fenomeno migratorio non era ancora così acuto e drammatico, il principio del “primo approdo” fu concepito per impedire il cosidde tto asylum shopping, vale a dire le richieste multiple in Paesi diversi. Proprio in nome dell’unità e della solidarietà europea. Paradosso nel paradosso, nella prima versione il criterio umanitario era limitato ai “richiedenti asilo”, cioè a chi ha lo status di rifugiato: tutti coloro che, secondo la Convenzione di Ginevra, sono perseguiti – o meglio, perseguitati – nei propri Paesi d’origine per motivi di “razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le opinioni politiche”. Una sorta di “numero chiuso”, di canale privilegiato o di corsia preferenziale, per quanti espatriano alla ricerca della sopravvivenza. Sono state poi le successive versioni Dublino II e Dublino III, rispettivamente nel 2003 e nel 2013, a confermare e modificare il Regolamento. Prima, sotto il secondo governo di Silvio Berlusconi con il centrodestra al completo, fu aggiunto l’obbligo di prelevare ai migranti le impronte digitali, suscitando le critiche dei garantisti. Poi, è stato l’infausto governo delle “lar – ghe intese” guidato da Enrico Letta, e appoggiato inizialmente anche dal Popolo della Libertà/Forza Italia, a sottoscrivere l’estensione del “primo approdo” anche a chi chiedeva una “protezione internazionale sussidiaria”: a coloro cioè che avrebbero corso il rischio di gravi danni al ritorno nel proprio Paese d’origine. In pratica, il criterio è stato ampliato ai tanti “d i s p e rat i”messi in fuga dalle guerre, dalle violenze, dalla fame e dalla povertà, che sbarcano con mogli e figli sulle nostre coste e su quelle della Grecia o della Spagna, affrontando le incognite e i pericoli delle traversate che hanno trasformato il Mediterraneo in un “Mare Monstrum”. Se di responsabilità si vuole parlare, dunque, vanno suddivise tra le varie forze politiche che hanno sostenuto questi governi, a cavallo della Prima e della cosiddetta Seconda Repubblica. E in primis, naturalmente, tra i rispettivi presidenti del Consiglio. All’insegna dell’imprati – cabile politica dei “porti chiusi”, nel 2018 furono i decreti Sicurezza promossi dall’ex ministro dell’Int ern o, Matteo Salvini, sotto il primo governo gialloverde di Giuseppe Conte, a limitare l’applicazione del principio ai “richiedenti protezione speciale”. Ma, a parte i controversi aspetti giudiziari dei singoli casi, s’è visto poi a quanto poco sono servite in concreto queste restrizioni per fermare l’eso – do biblico verso le nostre coste. Fatto sta che il danno maggiore provocato dal dogma del “primo approdo” è stato proprio quello di concentrare sull’Italia il peso dei soccorsi e dell’assistenza, deresponsabilizzando al contempo gli altri Paesi europei. Ma ormai quel criterio è diventato anacronistico, fuori della storia e del mondo in cui viviamo. E perciò il totem va ristrutturato o rimosso, per coinvolgere “pro quota” gli altri Stati dell’Un i o n e, in base a parametri chiari e obiettivi: come, per esempio, la superficie del territorio e la popolazione, il trend de mo g ra fi co, le diverse esigenze e opportunità di occupazione sul mercato del lavoro. È questo il presupposto indispensabile per poter programmare, controllare e ridistribuire il flusso dei migranti in tutt’Euro – pa, in modo equo e solidale; attraverso i corridoi umanitari, la regolarizzazione degli ingressi e quindi il contrasto all’i m m igrazione irregolare. Una condizione necessaria, anche se da sola insufficiente. Già nel settembre del 2019, in un mini-summit a Malta, cinque governi dell’Ue – tra cui quello italiano – hanno lanciato una proposta per così dire più sof t sui ricollocamenti automatici dei migranti. Quell’accordo prevedeva in via provvisoria una rotazione volontaria dei porti di sbarco e lasciava agli altri partner la facoltà di aderire o meno, a rischio di eventuali sanzioni. Un passo avanti, senza dubbio, di cui va dato atto al secondo governo Conte. La proposta, però, è caduta nel vuoto comunitario dell’indifferenza e del disinteresse o forse degli egoismi nazionali. Più recentemente, è stata la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, a rilanciare la necessità di riformare la Convenzione di Dublino, o Trattato che dir si voglia, per superare il tabù del “primo approdo”. Lei stessa il 27 gennaio scorso ha inviato una lettera ai governi dei 27 Paesi per ribadire che “l’immigrazione è una sfida europea”, che bisogna “rafforzare le frontiere esterne” e infine “accelerare le procedure dei rimpatri”. Ma, nell’ul – timo Consiglio europeo, al tema sono state dedicate cinque righe (di numero) nelle dieci pagine delle Conclusioni, per recitare la litania che il problema riguarda tutta l’Europa e va affrontato con un approccio unitario, rinviando una verifica a giugno: questo è bastato alla nostra premier, Giorgia Meloni, per cantare vittoria e ostentare la sua “s o dd i s f a zi o n e”, amplificata dal tam-tam mediatico filogovernativo. Tanto più è necessario sancire il vincolo di una maggiore solidarietà europea sul fronte dell’immigrazione perché in realtà il flusso via mare rappresenta una percentuale modesta dell’intero fenomeno: era appena il 13% nel 2016, secondo l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale). Non a caso è stata l’Ungheria di un sovranista come Viktor Orbán a rifiutarsi di applicare la Convenzione di Dublino, respingendo i migranti che arrivano via terra lungo la rotta dei Balcani. Questo è l’impegnativo e scottante dossier su cui si deve misurare ora il governo Meloni, per convincere l’Unione a condividere effettivamente la pressione migratoria. E magari a gestirla nell’in – teresse comune, dell’Italia e di tutta l’Europa. ©