il Giornale, 29 marzo 2023
Biografia di Cristina Campo
In un’intervista rilasciata pochi mesi prima morire alla Radiotelevisione svizzera, Cristina Campo dichiarava di credere «all’invisibile, ed è forse la cosa che mi interessa di più». Dell’invisibile si fece consorella: agì per scomparire, lasciando di sé un calco, eco di parola calcinata nel quarzo. Pubblicò poco assecondando l’arcano precetto: «ho sempre avuto una gran paura della parola» si mostrò pochissimo: ostentare, specchiarsi, farsi fotografare, mettersi in mostra, sono i cardini di un credo demoniaco. Di Cristina Campo, di cui cade a breve il centenario della nascita, possediamo rare fotografie: sempre, appare bellissima, irraggiungibile. Di fatto, Cristina Campo è l’Iside della letteratura italiana: la sua intelligenza, spaziata e sprezzante, obbliga all’idolatria. Guido Ceronetti, uno dei suoi maggiordomi, scrisse che Cristina Campo era «la Perfezione», inscritta nel raro pleroma delle «donne cifrate, come Emily Brontë, Caterina da Siena, Teresa d’Avila, Anna-Caterina Emmerich, Marina Cvetaeva». Ne dice, Ceronetti, introducendo il libro-amuleto e quintessenziale della Campo, Gli imperdonabili, irriguardoso da riassumere in un articolo di giornale. Basti sapere che la perfezione ovvero la bellezza ne è il tema decisivo: «la suprema aristocrazia» che traluce nelle poesie di Boris Pasternak, nella figura di Djuna Barnes, ma pure nel «portamento eretto, delicato della ragazza della Costa d’Oro» e nella foga del «vecchio anacoreta» che per illuminazione scelse di «fuggire correndo dietro ai bufali» che pasceva, a quattro zampe. La bellezza è violenta, la chiamata irriguardosa. Velata dal mistero, Cristina Campo è pari a quelle auree imperatrici di Bisanzio che con la stessa dedizione partecipavano ai sinodi per sprofondare nei meandri dello Spirito Santo e un attimo dopo comminavano la morte di un generale. Anzi tutto, sciolse il voto del nome. «Considero Cristina Campo talmente poco importante», diceva. Nacque a Bologna, il 29 aprile del 1923, unica figlia di Guido Guerrini, compositore di alto talento, direttore del conservatorio Cherubini di Firenze, poi al Santa Cecilia di Roma. Con il suo vero nome, Vittoria Guerrini, firmò, nel 1944, neanche ventenne, per Frassinelli, la traduzione dei racconti di Katherine Mansfield. Come Benedetto P. D’Angelo scrisse la nota introduttiva a La vita spirituale e l’orazione di Cécile J. Bruyère, Abbadessa del monastero di Solesmes, pubblicato da Rusconi nel 1976. Nel canone della Campo figurano Giovanni della Croce e John Donne tradotto per Einaudi nel 1971, Hugo von Hofmannsthal e Thomas S. Eliot, Simone Weil, Lawrence d’Arabia, Emily Dickinson. Coltivò un legame epistolare con William Carlos Williams (che tradusse, con genio, per Scheiwiller e per Einaudi, sotto l’astro di Vittorio Sereni); tra i suoi ultimi lavori, spiccano le versioni di alcuni testi di Efrem Siro, padre dell’innografia cristiana genere da tempo sotto disprezzo e di un paio di poemi di Peter Lamborn Wilson, alias Hakim Bey, amico di William Burroughs, guru della controcultura, incauto incrocio tra Henry Corbin e Timothy Leary. Nel 1953, per Gherardo Casini Editore, cercò di realizzare un’opera per l’epoca rivoluzionaria: Il libro delle ottanta poetesse, «una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi». Il progetto, irrealizzato, è stato compiuto dalle edizioni Magog, grazie a un’intuizione di Giorgio Anelli, come Ottanta poetesse per Cristina Campo. Secondo la scheda editoriale appuntata dalla Campo, eguale ruolo hanno le poetesse da Saffo ad Anna Achmatova le mistiche Angela da Foligno, Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena e le viziate dame dei salotti francesi da Mademoiselle Aïssé a Julie de Lespinasse e Madame de Sévigné insinuando il genio dell’ascesi per abiezione, dell’abitudine alla frivolezza come fonte di sapienza, d’elezione. Dal 1958 fu al fianco di Elémire Zolla, seguendolo nella composizione babelica de I mistici dell’Occidente e nell’ideazione della rivista Conoscenza religiosa. I lavori pubblicati postumi, Diario bizantino, Canone IV, Ràdonitza, dai versi spesso ineffabili («Due mondi e io vengo dall’altro»), testimoniano un percorso che dalla poesia sfocia nella liturgia, lirica che si fa obbedienza, prece. Nel 1959 Vittoria Guerrini aveva tradotto il Diario di una scrittrice di Virginia Woolf, dieci anni dopo lavorava al Breve esame critico del Novus Ordo Missae, in reazione alla riforma liturgica sancita dal Concilio Vaticano II. Indifesa e indefettibile paladina della tradizione, la Campo organizza la rivista Una voce, «il cui scopo è di salvare la liturgia tradizionale, latina e gregoriana»; con lo stesso intento, il 5 febbraio del 1966 invia a papa Paolo VI una lettera-manifesto firmata da 38 intellettuali di ogni paese, tra cui Eugenio Montale, Jorge Luis Borges, W.H. Auden, Giorgio De Chirico, María Zambrano. Diventò «una devota di Lefèbvre, lo credeva un santo» (John Lindsay Opie). Di queste lotte nel perimetro sacro, la Campo scrisse, tra gli altri, ad Alejandra Pizarnik, la grande poetessa argentina conosciuta in Francia, con cui intrattenne un epistolario vertiginoso tra il 1963 e il 1970. Alla Pizarnik rivelò la sua convinzione: che la poesia è fermezza nella forma, sequela senza seguito, inseguimento. «Il poeta, cioè l’aristocratico, ha la sua patria, la sua religione, la sua famiglia la religione della parola, la patria della lingua, la famiglia dei morti meravigliosi e severi. È sorvegliato ovunque, controllato da un seguito implacabile, da un cerimoniale più duro e più puro di quello degli imperatori di Bisanzio», a cui deve sottomettersi, «da asceti». Tutto il contrario della poesia improvvisa e sentimentale, sacra per diffamazione, blasfema per eccesso d’ego, dell’ossessione per la fama che attanaglia troppi poeti odierni, privi di lignaggio, di linguaggio. Tradotto da Stefanie Golisch, l’epistolario tra la Campo e la Pizarnik si scrivevano in francese è incredibilmente inedito: eppure, si trova facilmente tra i calanchi della rete. L’opera principale della Campo giace nella tesoreria libraria Adelphi, qualcosa è pubblicato qua e là ricordiamo, tra i recenti, la raccolta di saggi curata da Chiara Zamboni, Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile, Mimesis, 2023; Cristina Campo. La disciplina della gioia, Pazzini, 2022; Cristina Campo in immagini e parole, Ripostes, 2022, molto resta da editare. Il Carteggio con Alessandro Spina, folgorante, stampato da Morcelliana nel 2007, è ormai introvabile. In Elogio dell’inattuale (Morcelliana, 2013), Alessandro Spina, tra i rari stilisti della lingua italiana, autentico stilita della forma, perciò dimenticato, ricorda che al funerale della Campo morta a Roma il 10 gennaio del 1977 figuravano «solo tre persone». Era nata postuma e millenaria, la Campo, «cosciente del suo valore, rarissimo»: si avviava a diventare un’autrice di culto. La nostalgia è gnosi del rimpianto, la grandezza chiede soltanto d’essere venerata. Cristina Campo scrisse una delle poesie del contro-amore più eleganti e crudeli della storia della letteratura, raccolta in una silloge di cristallo, Passo d’addio, stampata da Scheiwiller nel 1956. Esordio folgorante «Moriremo lontani. Sarà molto/ se poserò la guancia nel tuo palmo/ a Capodanno», versi di socratica sapienza «Dell’anima ben poco/ sappiamo». Nel finale, la Campo s’immagina i due, amanti nel niente, avvolti in «una sola teca di cristallo», abbracciati nella morte, perduti alla vita: «Popoli studiosi scriveranno/nessun vincolo univa questi morti/ nella necropoli deserta». Pare un anatema. La poesia è dedicata a Mario Luzi. La Campo adorava i suoi versi, quelli raccolti in Quaderno gotico e Primizie del deserto. Il poeta aveva profilo d’aquila, talento da fatuo tombeur. Si erano conosciuti nel ’47, lui le aveva donato un libro di Simone Weil; «Si fece più prepotentemente avanti lei», ricorda il poeta. L’amore di lei è un fuoco blu, di ghiaccio per cronica apostasia del fato, non corrisposto. «Si aggrappa disperatamente alla mia amicizia che è molta, ma non può purtroppo portarle alcun bene vero», scrive Luzi a Leone Traverso, con cui la Campo stava rompendo. Lei gli rispose con quella poesia, assertiva. Luzi le pareva un corpo esangue, un dio fantomatico e senza cuore, ridotto a calzamaglia; lei dominava tra le stelle fisse, ormai indiata.