la Repubblica, 29 marzo 2023
Storia del Regio di Torino
TORINOQuesta storia di fuoco e velluto è ricominciata cinquant’anni fa, quando la sera del 10 aprile 1973 una dama in chignon e tailleur di seta nero riapriva al mondo la porta del Teatro Regio, inghiottito dalle fiamme nel 1936. Lei si chiamava Maria Callas e quella volta non fu voce d’angelo, ma regista di un’opera lirica,I Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi, per la prima e ultima volta nella vita. Non era il suo mestiere e neppure il suo destino. La regina morirà quattro anni più tardi.Il Regio è un capolavoro architettonico del Novecento disegnato da un genio pazzo, Carlo Mollino. È un uovo morbido, un universo felpato dove, narra la leggenda, si vedono le trasparenze delle signore in abito da sera in un certo punto preciso del foyer, in date condizioni d’ombra e riflessi. Il Regio è la cascata di luce dai tremila e seicento steli in sala, la nuvola iridescente che passa dall’avorio all’indaco e poi al viola, orrore!, l’infausta tinta in odio agli artisti. Il Regio è una memoria di cenere e lingue di fuoco, quelle che un passante vide rosseggiare dietro le finestre nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1936: chiamò i pompieri, ne arrivarono dieci, riuscirono a salvare la famiglia del custode intrappolata al quarto piano del palazzo rococò, sette persone in tutto, ma non il teatro che si sbriciolò come un grissino rubatà, del tipo che il sovrintendente Giuseppe Erba avrebbe portato alla Callas, a Parigi, quasi quarant’anni dopo, insieme a una favolosa scatola di cioccolatini Peyrano e a otto milioni di lire, per convincerla a vivere quel fiasco di regia. Ma dovette trascorrere tutto il tempo del mondo, compresa una guerra, per vedere l’inizio della ricostruzione tra bandi infiniti, rinvii e polemiche (il Pci torinese non voleva quelgioiello elitario, assolutamente) e giungere finalmente al fatidico 10 aprile ’73, nel palco d’onore anche Giovanni Leone, il presidente della Repubblica: sembrava un topolino, accanto a donna Vittoria. Cerimoniale e addetti al protocollo erano terrorizzati. Fu il suo amico Alighiero Noschese, l’imitatore, a convincerlo alla bizzarra trasferta (allora i capi di Stato mica andavano, poniamo, al Festival di Sanremo): Noschese era d’abitudine al Quirinale, dove faceva morire dal ridere il presidente con le sue celebri gag, imitando Andreotti e Fanfani. «Giovanni, guardi che se non viene al Regio non le faccio più il teatrino!», minacciava Noschese. E il presidente andò.Il Teatro Regio racconta mezzo secolo di capricci e gloria, si sa come sono i divi. Per il centenario diBohème nel 1996, Pavarotti si portò appresso un furgone di cibo, un enorme frigo e pure l’affettatrice. La direzione dell’hotel Principi diPiemonte foderò in plexiglass la cucina della suite del tenore, per evitare che gli schizzi di grasso facessero scempio delle tappezzerie. Un altro tenore, Nicola Martinucci, nella fodera dell’abito di scena si faceva cucire chiodi piegati perché portano bene. Anche Napoleone gradiva il Regio: ci andò tre volte. Il Palco della Corona era collegato direttamente agli appartamenti dei Savoia, e l’acustica fu riprogettata da Arturo Toscanini, il quale diresse la prima diBohème il primo febbraio 1896. Poi il fuoco fece sapere cosa pensa della vanità degli uomini (solo la cornice di marmo di un caminetto sopravvisse a quella Pompei), senza peraltro avere nemmeno lui l’ultima parola: se un esplicito divieto del governo non avesse proibito l’uso di ferro e cemento in tempo di guerra per opere di interesse non bellico, le settecentesche macerie di piazza Castello avrebbero restituito assai prima alla città il teatro più amato. Accadde solo cinquant’anni fa, quando, pur di avere un biglietto, c’era chi spediva alla sovrintendenza del Regio assegni in bianco, e non pochi se ne stamparono di falsi. Scene e costumi di Aligi Sassu, protagonisti Raina Kabaivanska e Gianni Raimondi. Per spiare le prove, e soprattutto ogni sospiro della Callas, il direttore della Gazzetta del Popolo infiltrò un suo giovane cronista tra le comparse, idea geniale che riempì di “buchi” la concorrenza diStampa e Corriere. E i primi spettatori strabuzzarono gli occhi al cospetto di quei quattro piani scarlatti tra vetrate fumé, passerelle e scale mobili come alla Rinascente e neppure un corridoio, globi di luce e velluto, tantissimo, come in un’alcova o in un boudoir di quelli dove Carlo Mollino scattava foto erotiche con la Polaroid a ragazze bellissime.Perfetto simbolo del mistero torinese, in cui nulla è mai come sembra e la morbidezza è sempre il nascondimento dell’inferno, il TeatroRegio resta una mirabolante macchina scenica con i 6 ponti da transatlantico, gli 8 carri per lo spostamento delle scene, i 32 motori che le alzano e le abbassano insieme ad altri 28 manuali che si muovono, però, al minimo tocco, per via di un prodigioso sistema di bilanciamenti.Mezzo secolo fa, la sberla del moderno impresse il segno delle sue dita sul volto austero di Torino, anche se il debutto dei Vespri fu ben poca cosa dal punto di vista artistico: la Callas li aveva diretti da muta. La mattina faceva colazione con una foglia di lattuga decorata da un filo di miele greco, poi andava dal parrucchiere Carlo in via Santa Teresa, infine in platea dove si accomodava in fila 10 ma non sentiva un granché, e soprattutto non diceva niente a nessuno. Ma quando sorrideva, ricorda chi c’era, era come se le tremila e seicento lacrime di luce del soffitto si accendessero di lei.In quell’occasione Maria Callas fu regista d’opera per la prima e ultima volta con “I VespriSiciliani” di VerdiNel palco d’onore c’era il presidente Giovanni Leone Fu il suo amicoAlighiero Noschese a convincerloBackstageQui sopra, dall’alto, la sartoria del teatro, il retro del palco e lavori in sartoria In alto a sinistra Piero Robbia, memoria storica del Regio, e, alla sua destra, il palcoscenico del teatro lirico torinese