il venerdì, 23 marzo 2023
Intervista a Quentin Tarantino - su "Cinema speculation" (La nave di Teseo)
Nelle oltre quattrocento pagine di Cinema Speculation, ovvero i film della vita di Quentin Tarantino, c’è un dettaglio che è l’incubo di ogni giornalista pasticcione. Dunque: a diciannove anni il "cinefilo saputello e presuntuoso" Quint è in fissa con Rolling Thunder, revenge movie tostissimo, scritto da Paul Schrader e diretto da John Flynn, su un eroe del Vietnam cui viene sterminata la famiglia durante una rapina. È il primo film che si mette ad analizzare con metodo, e che gli dà il coraggio di diventare critico cinematografico.
Quindi decide di intervistare il regista e, non avendo il suo numero di telefono, chiama tutti i John Flynn sull’elenco di Los Angeles finché trova quello giusto. Quando va a casa sua, si porta il registratore e una sola cassetta, convinto che non gli verrà concessa più di un’ora. Ma Flynn è loquace, mette su un disco di Morricone e attacca a parlare. E il nastro si esaurisce: "Per non sembrare un cretino", il giovane Quint rinfila la cassetta nel registratore, cancellando tutto quello che ha appena inciso sul lato A. L’intervista è mezza andata, ma la faccia è salva.
Ecco, in questo dettaglio c’è anche lo spirito del libro: elucubrazioni su capolavori o titoli noti solo ai cultori dei generi e sottogeneri alternate alle memorie dell’autore da cucciolo, iperboli, ossessioni, retroscena, qualche malignità, ma senza esagerare, parecchia ironia e una conoscenza del cinema da nerd. Innamorato, però.
Dagli sberleffi ai recensori cialtroni ai sentiti omaggi al critico in seconda del Los Angeles Times, quello che recensiva i B film, e a Pauline Kael, mitica firma del New Yorker: elemento, questo, che confermerebbe le voci del prossimo film, l’ultimo, The Movie Critic, ispirato proprio a lei.
Dai film per adulti visti da bambino a Bullitt e all’Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo. Da Getaway! a Taxi Driver. Da Un tranquillo weekend di paura a Fuga da Alcatraz. Da Hollywood alla New Hollywood e ritorno. Il catalogo del cinema secondo Tarantino è questo, scritto (e tradotto molto bene da Alberto Pezzotta) con il linguaggio di quei cinefili un po’ su di giri che fanno notte per strada proclamando sentenze inappellabili e insostenibili castronerie sul film appena visto. "Non è che ho scelto un linguaggio, questa è solo la mia voce. Non volevo assolutamente essere accademico, ma rimanere personale e trasferire sulla pagina il mio punto di vista e il mio senso dell’umorismo".
Lei racconta che sua madre con il suo patrigno, e in seguito con altri amici e fidanzati, la portavano a vedere i film da grandi, a condizione di non rompere le scatole con domande e proteste da bambino. E che è stata sua madre la prima a insegnarle il cinema: era curiosa nella scelta dei titoli, le piacevano quelli di blaxploitation, le spiegava il significato del fermo immagine finale in Butch Cassidy, e gli schemi della satira. Sosteneva anche, la sua mamma, che in un film la violenza, se inserita in un contesto comprensibile, non è dannosa per un bambino, mentre i telegiornali lo sono eccome. Con i suoi figli adotterebbe lo stesso punto di vista?
"Non credo di condividere il suo punto di vista sui telegiornali. C’è da dire che quando ero piccolo era l’epoca piuttosto spaventosa dei serial killer, di Manson. Mi ricordo che chiedevo: ’Mamma chi è Charles Manson?’ e lei: ’Non è nessuno, non ti preoccupare, non c’è bisogno che tu lo sappia’. Ma per il resto condivido: mio figlio maggiore ha solo tre anni, non ha ancora la concentrazione per guardare un film dall’inizio alla fine, ma vedo che migliora: prima si stancava dopo cinque minuti, ora sta su un cartoon per un quarto d’ora e sa raccontare la storia. Mi è stato chiesto quale dei miei film gli mostrerei per primo e di solito rispondo che dipenderà da cosa gli interessa, ma se dovessi tirare a indovinare punterei su Kill Bill: Volume 1 perché è abbastanza irresistibile per un ragazzino: pieno d’azione e di colore. Intorno agli otto anni potrebbe chiedere anche Jackie Brown, ma propendo per Kill Bill".
Al Tiffany Theatre lei vide a sette anni il doppio spettacolo con La guerra del cittadino Joe e Senza un filo di classe: non ci capì moltissimo, ma le risate del pubblico erano contagiose e aiutavano a intuire le allusioni al razzismo o al sesso. Anche questa sembra una lezione di cinema: se un film lo vedi in mezzo agli altri lo capisci meglio?
"Joe mi è entrato in testa perché c’era una situazione eccitante: era eccitante stare con degli adulti che dicevano un sacco di parolacce al protagonista. Sapevo che era un cazzone razzista e che il pubblico lo disprezzava. Ma tutti si divertivano e ridevano come matti".
A parte l’eccitazione, non considerava un’ingiustizia sorbirsi solo i film che piacevano ai grandi?
"A volte mi portavano a vedere cose che non avrebbero scelto per loro, soprattutto il mio patrigno, che la sera suonava in un piano bar e adorava andare al cinema di giorno, per cui mi rifilava Conoscenza carnale, La volpe, Isadora, Domenica, maledetta domenica, ma poi anche Il favoloso dottor Dolittle o Love Boat. Per dire come erano cambiati i miei gusti in un paio d’anni: nel 1968 il mio film preferito era Un maggiolino tutto matto, nel 1969 Butch Cassidy, nel 1970 una commedia anarchica e piena di allusioni sessuali come M.A.S.H. Non c’erano molti soldi, i film costavano poco e noi andavamo tanto al cinema. Oppure potevamo andare a cena fuori, anche quello è entertainment".
Quando finì la pratica del doppio spettacolo paghi uno e prendi due?
"Durò tutti gli anni Settanta e cominciò ad abbandonare i cinema di quartiere nei primi Ottanta: erano sempre meno e sempre più specializzati in exploitation o James Bond. I multiplex ne decretarono la fine: c’erano cinque, sei film in programma e bisognava lasciare spazio a loro".
Lei riporta che a Hollywood la rivoluzione durò solo dal ’67 al ’70, poi New Hollywood diventò Hollywood. Non è un po’ veloce come rivoluzione?
"La vecchia Hollywood era clinicamente morta. Non ancora nel ’68 o nel ’69, ma nel ’70 sì".
E perché negli anni Ottanta il cinema americano tornò a fare film come nei Cinquanta, infantilizzandosi e per di più censurandosi da solo?
"I Settanta erano una decade di film che sfidavano ogni convenzione, con personaggi complessi e fuori dalle righe e finali tragici tipo Un uomo da marciapiede: l’happy ending, pietra angolare di Hollywood, era diventato obsoleto. Poi Sylvester Stallone ha fatto Rocky, tutti sono impazziti e giù a comprare biglietti. E dopo, ecco Star Wars e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Il pubblico ha scoperto che voleva tornare a divertirsi e l’establishment ha riscoperto come fare soldi con campioni d’incasso come Lo squalo. Fino al crollo del castello con il fallimento della United Artists per I cancelli del cielo di Cimino, che smentì il principio affermato negli anni precedenti, cioè che il regista può fare quello che gli pare. Ricominciano i controlli, si riduce la violenza, s’insinua la correttezza politica, i rating di autocensura diventano più severi".
Intanto i movie brats, i ragazzacci del cinema, e cioè Coppola, Bogdanovich, De Palma, Scorsese, Lucas, Milius, Spielberg e Schrader, si misero a fare film che, tendenzialmente, coniugavano qualità e incasso, passato e presente...
"Gli anti-sistema della generazione precedente come Altman, Rafelson, Nichols volevano fare i film americani come gli europei, di rottura. E ne erano capaci. Ma i movie brats amavano i vecchi film visti da piccoli anche in televisione: Spielberg, con Lo squalo, realizza un grandioso film di mostri e con Incontri ravvicinati ci dà la sua versione di Ultimatum alla terra; Lucas, con Star Wars, rielabora Flash Gordon. Quelli di prima facevano film anti-genere, guardavano il cinema di genere dall’alto in basso, mentre i movie brats no: tornavano con una consapevolezza da cinefili a Viaggio al centro della terra o a Ventimila leghe sotto i mari".
Tra genere e anti-genere non è che ci si raccapezza sempre...
"A metà dei Settanta i film di Charles Bronson non erano anti-genere e John Wayne faceva ancora i suoi western di una volta. Ma poi tutti i film di genere erano diventati anti-genere: quando Frank Perry girava i suoi western dark erano anti-western. Lo stesso vale per Piccolo grande uomo di Arthur Penn. E pure la sparatoria finale di Gangster Story, con tutto il suo thrilling, è anti-genere".
Lei dedica un intero capitolo al periodo ipotetico del terzo tipo: se il regista di Taxi Driver fosse stato De Palma. Riassumendo: sarebbe venuto meglio o peggio?
"Peggio, ma con qualcosa in più: avrebbe fatto un thriller politico e non si sarebbe identificato col protagonista come Scorsese e De Niro".
Tutti questi film li ha rivisti per scrivere il libro o è andato a memoria?
"Per gran parte del libro mi sono basato sulla memoria, ma i film cui ho dedicato un capitolo specifico li ho rivisti, non solo per scrivere le mie note, ma anche per vedere se avevo qualcosa di nuovo da dire. Perché il libro non è solo una raccolta dei miei titoli preferiti, alcuni lo sono, altri proprio no, l’intenzione non è segnalare quelli da vedere assolutamente. Sono solo film su cui ho qualcosa da dire, su cui imbastire una conversazione o fare delle esplorazioni, che li apprezzi o meno, segnalando che magari mi piace una parte e una no".
Scrive che Bullitt è puro cinema, uno dei migliori film mai girati, dove a contare sono l’azione, l’atmosfera, San Francisco, la musica di Lalo Schifrin e Steve McQueen - dal taglio di capelli ai vestiti. E la trama? Nei suoi film, invece, ce n’è parecchia.
"Un sacco di action movies all’epoca annegavano nella trama, mentre se guardi Bullitt te ne freghi della storia, ma ti importa dell’atmosfera. La critica inglese Dilys Powell ha scritto: ’A parte i film di Antonioni, non ho mai visto un uso del paesaggio urbano così efficace dal punto di vista narrativo ed emotivo’. Non è un film sul plot, ma sul sentimento e gli uomini, e questo è molto liberatorio. La trama poi c’è, anche buona, ma non la ricorda nessuno".
Steve McQueen ha molto spazio nel libro e ne ha anche in C’era una volta... a Hollywood. Però non sembra le sia simpatico.
"Mi piace un sacco".
Anche come persona?
"Non l’ho conosciuto, non lo so e, a meno che non ci debba lavorare, non mi importa se un attore è il più grande figlio di puttana di tutti i tempi o la migliore persona al mondo. Come non me ne frega niente se un pessimo attore è un uomo buonissimo: mi interessa come recita, mica ci devo andare a cena. Insomma, McQueen mi piace un sacco, ma per me non è importante l’immagine che ne esce dal libro. E comunque ho parlato molto di lui, ma anche di Bullitt e Getaway! e di Sam Peckinpah".
I finali non proprio rosei, ma neanche nerissimi, dei suoi ultimi film inducono a pensare che lei si stia addolcendo. È un segnale anche ammettere oggi, mezzo secolo dopo, che Getaway! è un film soprattutto d’amore, più che d’azione, come peraltro riconobbero i francesi appena uscì il film?
Qui va segnalato che Tarantino emette un vero barrito. Se fossimo in prossimità di uno zoo, una savana, o una foresta pluviale lo attribuiremmo a un elefante. Invece è lui che - per inciso - tra pochi giorni, il 27 marzo, compie sessant’anni.
"Sto cambiando. Non sono più quello che ha fatto Le iene. In un certo senso la mia vita è cambiata molto negli ultimi cinque anni: sto ufficialmente diventando più grande, se non ufficialmente vecchio, ma penso anche che Kill Bill non è necessariamente un film d’azione e di vendetta, perché, in fondo, quella fra la Sposa e Bill è soprattutto una storia d’amore".
Stiamo aspettando il suo decimo film che, in base ai suoi annunci passati, dovrebbe essere l’ultimo...
"Sta arrivando, bisogna definire ancora alcuni punti. Ma si farà".