il Giornale, 29 marzo 2023
A casa di Sciascia
L’ultima in ordine di tempo è questa CasaSciascia, associazione culturale e insieme museo, frutto della tenacia e della passione di Pippo di Falco, già consigliere comunale di Racalmuto, una vita a sinistra, quando ancora a sinistra c’era vita, ma sempre e comunque uomo di cultura, lettore accanito, bibliofilo raffinato. Dal 2011, mi racconta, la casa era rimasta inabitata: venute nel tempo a mancare le zie e gli zii di Sicilia che di Sciascia uomo scrittore erano stati una costante, non si erano trovati possibili acquirenti né una reale tutela pubblica, se non come «luogo dell’Identità e della Memoria». «Proprio perché è un luogo dell’anima, uno spazio che ci racconta le sue fantasie letterarie giovanili, le sue prime letture e le sue prime scritture, ma anche uno spazio familiare, moglie, figli, lavoro, alla fine la casa l’ho comprata io... Volevo fosse aperta al pubblico. E così è stato».
Se al piano terra non resta più nulla di ciò che fu inizialmente la sartoria dello zio Salvatore e in seguito la prima dimora di Leonardo e Maria Sciascia freschi di matrimonio, i due piani superiori ricostruiscono fedelmente il salotto, la camera da letto, la stanzetta delle figlie ancora piccole, lo studiolo con tanto di scrittoio davanti a una finestra che si apriva sul paese e sulla poco distante Centrale elettrica, la stessa che oggi è la sede della Fondazione Sciascia. E ancora, i comò, il mobile-biblioteca, le sedie in stile Nico Parisi, un designer in voga negli anni Sessanta e molto amato dagli scrittori siciliani (un altro suo fan è il catanese Giampiero Mughini...).
Su tutto però dominano i libri. Le prime edizioni al completo delle sue opere, le collezioni da lui curate per Sellerio e per quello Sciascia editore suo omonimo e suo amico, gli autori preferiti, siciliani e no, da Pirandello a Stendhal, da Manzoni a De Roberto... E poi le riviste, letterarie, di cinema, di teatro, d’arte e di cultura, Pesci rossi, Scenario, Filmcritica, Rinascita, cartelle d’arte e libri fotografici, ritagli-stampa con i suoi articoli, le sue interviste, le recensioni ai suoi libri.
Una sorta in pratica di work in progress permanente, fra visite studentesche, arrivi di studiosi, catalogazione di nuove acquisizioni frutto delle incessanti ricerche di Di Falco, con in più, a pochissima distanza, uno spazio espositivo, La stanza dello scirocco, all’interno di un antico palazzo nobiliare, messo a disposizione gratuitamente da un altro scrittore racalmutese, Gaetano Savatteri. Raramente è dato incontrare, in una realtà di qualche migliaio di abitanti, una dimensione altrettanto libresca e colta nel senso più vero del termine.
Dire che Racalmuto sia Leonardo Sciascia è un luogo comune e insieme una verità. Non a caso via Regina Margherita, dove è appunto CasaSciascia, da più di vent’anni ha cambiato il suo nome in via Leonardo Sciascia. Non a caso, nel centro del paese, a due passi dal circolo Unione da lui frequentato e raccontato, dove campeggia una lapide che lo ricorda, c’è la statua che lo ritrae come fosse a passeggio, opera di uno scultore racalmutese, Giuseppe Agnello. Non a caso nella scuola Macaluso c’è un’aula-museo che ne porta il nome e che, come scrivono Salvatore Picone e Gigi Restivo nel loro bellissimo Dalle parti di Leonardo Sciascia. I luoghi, le parole, la memoria (Zolfo editore) – incredibile miniera topografica e biografica di quanto Sciascia si sia imbevuto di Racalmuto e viceversa – «c’è una vera e propria macchina del tempo: la cattedra e la lavagna, l’alfabetario, la vetrinetta con gli strumenti didattici, dal planetario agli insetti imbalsamati, la radio da cui l’alunno Sciascia ascoltava le canzonette del regime e il futuro maestro l’inno di Mameli». E poi i calamai, i quaderni, i vecchi banchi di legno... Non a caso, infine, la fondazione che ne conserva il nome allinea, fra le tante altre cose, oltre 200 ritratti di scrittori (acqueforti, acquetinte, disegni e dipinti) da lui raccolti e poi donati, fra cui spiccano opere di Clerici, Maccari, Caruso, Guccione, Guttuso, Messina, Chagall, de Segonzac, Laurencin, Fantin-Latour...
Dietro quel luogo comune/verità, c’è però anche un’altra storia, ovvero un’altra memoria, altrettanto significativa, quella stessa del resto che farà scrivere a Sciascia: «Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato». In una Racalmuto seicentesca, per esempio, c’è spazio in contemporanea per un pittore famoso e orbo di un occhio, Pietro d’Asaro, per un frate eretico, Fra Diego La Matina, uccisore del suo stesso inquisitore, don Juan Lope de Cisneros, per il protomedico delle due Sicilie Antonio Alaimo, la più alta autorità sanitaria dell’isola al tempo della peste. Su di loro Sciascia ha scritto, interrogandosi anche su una sorta di spirale che dal passato si allungava sino al suo presente, alla «determinazione» della sua stessa nascita: «Per quali ragioni, insomma, a un punto del tempo e dello spazio, in un certo periodo e in un certo luogo, viene a prodursi una fioritura di ingegni, un fervore di pensiero e di opere, resta – nonostante tutte le indagini e le analisi che se ne possono fare – un mistero come di natura, in quel che la natura ha ancora, e avrà sempre, di misterioso. E di meraviglioso».
Anche il teatro Regina Margherita di Racalmuto, altro tempio della giovinezza sciasciana, è come lì ad attenderlo da quella fine Ottocento in cui fu inaugurato, un teatro che farebbe la gloria di qualsiasi città d’arte, costruito nel cuore di una Sicilia rurale, di zolfatare e di saline: centoventi posti, due file di palchi, stucchi e pitture a profusione, l’Apoteosi di Apollo dipinta sulla volta, il velaio storico dei Vespri siciliani a fare da quinta alla platea. «Lì ho vagheggiato il mio destino nel teatro: a scrivere per il teatro»; e poi, quando la sua platea si aprirà anche alla proiezione cinematografica, «fino oltre i vent’anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore». Chiuso a metà degli anni Sessanta, un decennio dopo Sciascia documenterà sul settimanale L’Espresso «le rovine di quel luogo che ricordavo splendido, incantevole»: i velluti rossi a brandelli, gli affreschi corrosi, le assi del palcoscenico fradicie per l’umidità... Un grido di dolore che negli anni successivi si concretizzerà in un primo restauro e poi finalmente, a partire dal Duemila, nel suo recupero totale e nella sua riapertura, anche se purtroppo non in pianta stabile. Visitarlo però, con la sua mostra permanente di costumi di scena, è una gioia per gli occhi e un intatto senso di meraviglia.
Ironicamente, poco prima di morire, Sciascia scrisse che sperava «di non diventare né un’attrazione turistica né un bene culturale». Ma quando qualcuno si provò a obiettare che una fondazione culturale in Sicilia, anche se a suo nome, rischiava, come già avvenuto in passato per iniziative simili, di vedere quel lascito letterario rosicchiato dai topi, risponderà tranquillamente: «Bene, se topi devono essere che siano topi di Racalmuto».
E in fondo è proprio questo senso di immedesimazione che si sente in questa giornata di primavera in cui un giovane agrigentino, appassionato e competente, Roberto Bruccoleri – fondatore di un blog che si chiama Blasco da Mompracem, organizzatore di viaggi letterari e partecipe del progetto «Strade degli scrittori» -, mi porta in giro per Racalmuto insieme con l’infaticabile Pippo Di Falco e l’andirivieni sollecito e cortese di alcuni degli Sciasciaboys del tempo che fu, tutti oggi affermati professionisti e tutti però a quel tempo rimasti fedeli. L’aria calda di una domenica di sole, quel cognome Sciascia che ancora nell’Ottocento veniva trascritto Xaxa, un’etimologia araba che indica «il velo del capo» e che solo qui viene pronunciata, come ha osservato un altro siciliano doc, Pietrangelo Buttafuoco, «con quella tipica aspirazione che risente del linguaggio dei musulmani che dodici secoli fa conquistarono l’isola», il silenzio delle stradine nell’ora di pranzo, la quieta allegria di un ristorante familiare, colorano Racalmuto di una struggente memoria viva, sempre presente, per nulla addomesticata.