La Stampa, 29 marzo 2023
Adriano Panatta ricorda Gianni Minà
Era il 1976, c’era Adriano Panatta in campo al Foro Italico a Roma per la finale degli Internazionali d’Italia contro Guillermo Vilas. E poi c’era quel signore con i baffi e il microfono in mano, la faccia buona e intelligente, capace di avvicinarsi con la leggerezza di un Comanche, quasi gattonando sulla terra rossa del centrale di allora, per chiedere a Panatta, in diretta tv durante un cambio di campo: «Adriano come ti senti?». Un signore educatissimo e ubiquo, di nome Gianni Minà.
«Oggi una cosa del genere sarebbe impossibile», sorride Panatta. «Per un giornalista è diventato quasi impossibile fare un’intervista normale a un giocatore, figuriamoci entrare in campo durante la partita. Ci sono come degli sceriffi: se ti avvicini ti arrestano. Gianni era così, riusciva a fare quello che gli altri non pensavano nemmeno». Ma che sapeva di potersi permettere: per abilità e per conoscenza del mondo. «A quei tempi eravamo già amici, cenavamo spesso insieme, quindi in realtà vedermelo spuntare vicino non mi diede neanche fastidio, anche se in quel momento stavo perdendo. Magari ad un altro avrei dato una racchettata in testa… Ci provò poi una seconda volta, e allora lo fermarono. Quindi credo che rimanga un episodio unico, nella storia del tennis e forse dello sport. E irripetibile».
Formidabili, quei decenni. Fatti di frequentazioni continue, assidue, di amicizia vera; di cene e incontri fra il casalingo e il surreale. Minà era l’amico geniale e gentile a cui nessuno sapeva dire di no. «A Gianni, del resto, che volevi dirgli? Era amico di tutti. A quei tempi ci trovavamo spesso insieme, a casa sua, con noi c’erano Gianni Boncompagni, Franco Bracardi, Mario Marenco, Renzo Arbore, erano serate molto divertenti».
L’intervista diventava naturalmente il proseguimento dell’amicizia con altri mezzi e in altri luoghi, ma con lo stesso spirito, la stessa sintonia. Per questo chiunque, da Ali a Benvenuti, da Mennea a Maradona, si apriva spontaneamente, abbassando la guardia davanti a quello sguardo empatico e prensile. A quelle domande che calavano nel dialogo al momento giusto, fatte di parole incalzanti ma non aggressive, o inutilmente provocatorie.
«Gianni era, soprattutto, una brava persona. Mai malizioso, come i giornalisti, anche per mestiere, a volte devono essere. Mai sopra le righe. Non inseguiva lo scoop per lo scoop; piuttosto cercava la storia, puntava a interpretare i sentimenti di chi aveva davanti. Il suo modo di fare era rassicurante, per questo riusciva a metterti sempre a tuo agio». Pugili, tennisti, calciatori, velocisti, Minà ha frequentato molti sportivi, tutti o quasi quelli che hanno contato qualcosa fra la metà degli Anni 60 al nuovo Millennio. E ha saputo raccontarli con uno stile unico.
«Ha ideato e condotto bellissime trasmissioni in tv», racconta Panatta. «Credo di aver fatto con lui anche una edizione della Domenica Sportiva. Le sue non erano interviste tecniche, non parlava di tattica, di colpi. Gli interessavano le persone, i risvolti umani e psicologici». Senza la tentazione di fingersi quello che non era, di usare scorciatoie
«No, a tennis non giocava: diciamo che non aveva proprio il fisico e l’attitudine dell’atleta. E poi era pigro, non faceva sport e per questo lo prendevo in giro. Ma non si arrabbiava mai».
La mitologia attorno alla sua agenda, dove si trovavano i numeri di politici e campioni dello sport, stelle dello spettacolo e protagonisti della cronaca, è vasta e risaputa. Un colpo di telefono, e scattava l’incontro fra mondi diversi, apparentemente incomunicabili. Un po’ di quella magia restava addosso anche a chi gli era vicino, e così a volte solo il nome di Minà era la chiave, l’apriscatole di situazioni quasi inverosimili.
«Una volta, ai tempi della motonautica, andai a Cuba per una gara del mondiale. A quei tempi lavoravo per Tele Monte Carlo, la Rete 7 di oggi. Facevo i servizi per il telegiornale e alla gara d’esordio si presentò Fidel Castro. Ci salutò tutti, poi stava per montare sullo starter, la barca che dà l’avvio alle gare. Mi feci coraggio e da lontano gli dissi: "Comandante, sono un amico di Gianni Minà…". Castro si fermò, mi guardò e mi sorrise: "Gianni Minà, certo. Allora vieni, vieni con me…". E ottenni l’intervista».