La Stampa, 29 marzo 2023
Per l’Italia il Pnrr è da riscrivere
Roma, ieri. La prova delle difficoltà in cui versa il governo si manifesta quando è più o meno l’ora di cena. Alla conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri si presentano in due: Orazio Schillaci e Francesco Lollobrigida. La gran parte dei colleghi restano chiusi nella sala riunioni al piano nobile di Palazzo Chigi. All’ordine del giorno c’è la cabina di regia sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Con il passare delle settimane le difficoltà dell’Italia sul rispetto di impegni e scadenze sono sempre più evidenti. Dopo aver preso un mese, poi due, ora la Commissione europea non esclude nemmeno «un mese ulteriore» per valutare quanto fatto fin qui e sbloccare il pagamento della rata da venti miliardi del secondo semestre del 2022. Ma allo stesso tempo preme affinché il governo presenti entro un mese tutte le modifiche del Piano che ritiene necessarie.Fra le altre cose, Bruxelles ha preso di mira il finanziamento per la costruzione di due nuovi stadi, a Firenze e Venezia. A entrambi mancherebbero due requisiti essenziali per le opere finanziabili dal Pnrr: la finalità sociale e (nel caso di Venezia) la collocazione in aree urbane. «La proroga della valutazione non ne pregiudica l’esito. È abbastanza usuale che avvenga», diceva ieri una fonte europea a proposito dello stallo. Dietro quella battuta si celano due messaggi per Meloni che possono essere sintetizzati così: massima disponibilità a trovare soluzioni, ma ci sono limiti oltre i quali la Commissione non può spingersi.Che l’Italia avrebbe faticato a reggere la complicata architettura del Pnrr, a Roma e Bruxelles ne erano tutti certi dalla notte in cui Giuseppe Conte, in piena pandemia, negoziò duecento miliardi di euro fra prestiti e risorse a fondo perduto. «Se fallisse il Recovery plan dell’Italia, i primi a fare i conti con quel fallimento dovremmo essere noi», va dicendo spesso Paolo Gentiloni ai colleghi della Commissione e nei suoi contatti con i palazzi romani. Che sarebbe stata durissima lo sapeva sin dall’inizio Meloni e con lei Raffaele Fitto, il ministro a cui la premier ha dato quasi carta bianca per tentare di recuperare i ritardi iniziati prima ancora che il governo si insediasse. Ora però la preoccupazione ha superato il livello di guardia: Gentiloni lo ha detto apertamente a Sergio Mattarella in una telefonata di qualche giorno fa. Il caso della storia (o forse no) ha voluto che il commissario competente sul Recovery plan fosse italiano, e questo non è un dettaglio politicamente trascurabile.I nodi stanno venendo al pettine tutti insieme. Da un lato c’è il modo un po’ raffazzonato con cui il governo Meloni ha completato i 55 impegni dello scorso semestre. Fin qui, si tratta di problemi minori. Le persone interpellate a Bruxelles fanno sapere che si tratta di «rilievi tecnici assolutamente superabili». Ciò che preoccupa la Commissione è l’orizzonte. I numeri della Corte dei Conti sui fondi spesi fin qui sono deprimenti: a oltre un anno e mezzo dall’invio della prima rata l’Italia ha speso appena il dieci per cento di quanto a disposizione. Numeri che confermano la difficoltà tutta italiana nel riuscire a spendere i soldi che l’Europa ci concede generosamente da molti anni. Ma proprio per questo, fin dai primi passi del governo Meloni il commissario italiano aveva messo in guardia dalla tentazione di cambiare troppo.È andata diversamente, e ora c’è da gestire molte cose insieme: Meloni e Fitto, pur fra lo scetticismo del ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti, hanno deciso una modifica di tutta la struttura di gestione del Piano, accentrando i poteri a Palazzo Chigi. Allo stesso tempo, nel tentativo di salvare i fondi salvabili, Fitto ha iniziato a negoziare con Bruxelles una modifica delle opere da finanziare. L’idea – alla quale in linea di principio la Commissione non è contraria – è quella di spostare alcuni progetti fin qui della lista del Pnrr (che scade nel 2026) nei capitoli dei fondi ordinari di coesione, ai quali l’Italia può attingere fino al 2029. E qui sta nascendo un’ulteriore complicazione, di cui si sono accorti negli uffici che si occupano di quei fondi: la nuova governance del Piano è troppo accentrata per progetti destinati alle Regioni del Sud, dal cui parere non si può prescindere. La Commissione ha fatto sapere al governo di attendere una proposta di modifica entro la fine di aprile, insieme a quella relativa ad un altro pezzo del piano, ovvero la distribuzione di alcune risorse aggiuntive per progetti sulle energie rinnovabili. «Il momento per prendere il treno è questo, non può passare cento volte», avverte una fonte comunitaria. «Ogni modifica al Piano del governo deve passare da un voto della Commissione e del Consiglio, e ci vuole tempo», la risorsa scarsa che il sistema Italia è specialista nello sprecare.