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 2023  marzo 27 Lunedì calendario

Intervista agli Everything but the Girl - su "Fuse"



Coppia nella musica come nella vita, Tracey Thorn e Ben Watt sono riusciti nell’impresa di mettere in pausa per quasi 25 anni gli Everything but the Girl. Certo, lui ha continuato a produrre e a registrare dischi a suo nome, ha fondato un’etichetta e fatto il dj in mezzo mondo. Album solisti anche per lei, che ha scritto romanzi, un’autobiografia di successo ed è diventata un’editorialista del settimanale New Statesman

Dopo un quarto di secolo gli Everything but the Girl tornano il 21 aprile con un nuovo album intitolato Fuse, proprio mentre l’elettronica riscopre i ritmi del loro ultimo album del 1999, Temperamental, ma in un mondo molto diverso in cui forse non sarebbe più così semplice inciampare in un possibile nome per la band come fecero nel 1982, ispirati dalla pubblicità di un negozio di letti nella strada principale di Hull, dove andavano all’Università: "Da noi troverete tutto, tranne la ragazza". Parliamo del nuovo album nei giorni di convalescenza dal Covid, che hanno avuto entrambi.

Innanzitutto, come state?

Tracey: "Non che io mi senta proprio benissimo ma si va avanti".

Ben: "Tracey ha ancora il Covid, io l’ho avuto e mi sento molto meglio. E questo dopo aver fatto 5 vaccini".

Cosa vi ha spinto a riformare la band?

Ben: "La pandemia ha sicuramente svolto un ruolo molto importante nella decisione. Prima eravamo sempre molto occupati a seguire i nostri progetti solisti, Tracey ha anche scritto tanto, io avevo i tour, poi la pandemia ha fermato tutto. È stato piuttosto drammatico: tra l’altro, ho una malattia autoimmune, dovevo proteggermi, per un lungo periodo la vita è diventata molto difficile. Alla fine della crisi ci siamo guardati e ci siamo detti: ’Perché non torniamo a fare musica insieme? O siamo davvero così cambiati?’. È stata Tracey a dire: ’Forse questo è proprio il momento giusto di tornare insieme nella band’. Io all’inizio ero un po’ titubante, poi mi sono lasciato prendere ed è stato bello ritrovarsi".  

A proposito della reunion, qualche anno fa Tracey aveva dichiarato che c’erano ancora "alcuni ostacoli, pratici e psicologici, da superare", quali erano?

Tracey: "Uno era certamente pratico: avevamo tre ragazzi da crescere e rendere indipendenti, eravamo insomma impegnati a vivere come una coppia. Come genitori di tre ragazzi adolescenti, in quel periodo lavorare anche insieme mi sarebbe sembrato davvero troppo. Fare progetti separati mi è sempre sembrata un’opzione più salutare. Ora che i ragazzi sono ventenni e hanno lasciato casa, abbiamo molta più libertà, senza la confusione di vivere troppi ruoli nello stesso momento".

Che genitori siete?

Tracey: "Penso di essere sempre stata una madre molto presente. Ma è una domanda difficile a cui rispondere".

Com’è stato tornare a lavorare insieme?

Tracey: "Dopo tanti anni da solisti, l’abbiamo trovato più semplice di quanto immaginassimo. Pensavo che ci sarebbe mancato il senso di indipendenza e il controllo totale su ciò che fai, ma dev’essere proprio stato il momento giusto perché entrambi eravamo grati all’altro per i suggerimenti e l’ispirazione, e ci sentivamo rilassati perché finalmente non dovevamo portare da soli tutte le idee. È stato bello ritrovarci istintivamente, senza il bisogno di dover spiegare sempre ogni cosa".


Vi succede mai di comunicare mandandovi messaggi con le canzoni? Ad esempio, When you mess up sembra un dialogo.

Tracey: "E lo è, solo che è un dialogo interno. Sono io che parlo a me stessa, è un dialogo, diciamo così, psicologico, mi dico: ’Sembri di nuovo così piccola, penso che sia perché stai soffrendo, non essere così dura con te stessa’".

Avete scritto a quattro mani Time and time again: il testo parla di una coppia che nasconde un tradimento: se comincia a scrivere uno, l’altro non diventa sospettoso?

Tracey: "Siamo entrambi autori e ogni volta arriviamo con delle idee. A scriverla ho iniziato io, ricordo che ero in un bar e posso assicurare che è il frutto di completa finzione".

Le canzoni di questo disco sono state tutte scritte nell’ultimo periodo?

"La maggior parte l’abbiamo scritta durante il lockdown. Siamo partiti lavorando su appunti di melodia, improvvisazioni alla tastiera catturati al cellulare, tutto recente: When you mess up, Interior space, Lost. E in qualche caso il suono dell’iPhone ci è piaciuto così tanto che l’abbiamo lasciato nella versione definitiva. L’unica canzone scritta nel periodo precedente la pandemia è Run a red light, che avevo scritto nel 2016 per il mio album Fever Dream, ma non mi sembrava troppo in linea con quel lavoro: l’ho sempre ritenuta una canzone più adatta alla voce di Tracey. Fortunatamente quando gliel’ho fatta ascoltare, sul tavolo della cucina, le è piaciuta, ha subito detto che avremmo potuto utilizzarla".

Nell’album ci sono pezzi molto intimi, poco in linea con i primi due singoli pubblicati dell’album, ci si poteva aspettare un disco completamente dance e invece ci sono pezzi come Lost, sembra il cuore messo a nudo, un pezzo sulla perdita e sul lutto.

"Di questi tempi l’avvicinamento alla pubblicazione di un album è molto più lungo, vengono pubblicati tanti singoli e quindi anche un mix di atmosfere diverse. Stiamo svelando l’album via via: abbiamo scelto come primo singolo un pezzo dance, Nothing left to lose, perché era quello che ci emozionava di più, il più fresco, quello che si muove in un’area dove non eravamo mai stati prima, per il ritmo, per la linea di basso molto moderna".

Questo album potrebbe essere un secondo capitolo del vostro precedente disco del 1999, "Temperamental", e d’altronde molti ritmi sembrano essere tornati di moda, a cominciare dal drum’n’bass. Può essere anche la musica che si ascolta ad avervi convinto a tornare proprio ora?

Tracey: "È vero, ascoltiamo molte cose di oggi che hanno molta eco con la musica che suonavamo allora. Non è stato però qualcosa che ha determinato la nostra scelta di tornare perché quando abbiamo iniziato il lavoro abbiamo scelto di non pianificare nulla, di restare aperti il più possibile, per questo ci sono atmosfere diverse, il risultato è arrivato in modo del tutto spontaneo".

Lei Tracey nel 2000 disse stop ai concerti, l’ultimo per voi fu in Svizzera, al Montreaux jazz festival. Tornerete a fare tour?

Tracey: "Non abbiamo tour in programma e io non ho alcun desiderio particolare di tornare a esibirmi su un palco. Ben ha continuato per tutti e tre i suoi ultimi album ed era piuttosto felice di farlo. Io ho smesso per diverse ragioni: di nuovo, i figli, che non volevo portare in giro su un pullman ma vivermeli a casa; e un’altra ragione psicologica, perché dentro di me sentivo che quella parte della mia vita si era conclusa, non volevo farlo per sempre. L’ho fatto senza riluttanza, ero felice di essermi esibita per 15 anni".

Ben: "Credo si dia per scontato che i performer siano esseri narcisistici e che debbano per questo salire su un palco fino al giorno in cui moriranno, che non possano vivere senza il rapporto con il pubblico. Beh, noi forse non siamo necessariamente quel tipo di gente, possiamo andare e venire, prendere e lasciare. E forse, se gli Ebtg dovessero tornare a esibirsi di fronte a migliaia di spettatori, sarebbero costretti a suonare i loro brani più noti, ma io non avrei alcuna voglia di suonare le vecchie canzoni. Non mi sento ancora sul sentiero dell’eredità. Sono un po’ geloso dei musicisti jazz, nel loro caso nessuno si aspetta che suonino i successi, te lo immagini Miles Davis a cui chiedono di fare Kind of blue? A me interessa suonare la mia nuova musica, per questo facciamo un album".

Una volta di fronte a una platea di 20 mila spettatori lei disse che c’era troppa gente, non ne aveva bisogno.

Ben: "Non siamo fatti per le grandi arene, siamo fatti per i club. C’è un momento in cui fai fatica a connetterti con tanta gente, il gesto e l’azione diventano troppo grandi, si perdono le sfumature e la bellezza svanisce. Credo che noi siamo una band da gesti piccoli, per cui le sfumature contano molto".

Per questo quella volta che in Giappone vi arrivò dall’America la proposta di partire in tour di supporto agli U2 rispondeste ’No, grazie’?

"Sì, fu proprio per questo motivo. Fu una grande sorpresa per noi, gli U2 a metà degli anni Novanta erano molto interessati all’elettronica, avevano appena pubblicato Pop, l’album che si apre con il pezzo Discotèque. Ma ci sembrò tutto troppo grande".

Pensate di essere stati poco compresi e in generale che gli anni Ottanta siano stati poco compresi, almeno per come li avete interpretati voi?

Tracey: "È difficile rispondere, specialmente per una band come la nostra, interessata prima di tutto a sperimentare. Non credo che noi abbiamo mai avuto soltanto una voce o un solo volto da interpretare, abbiamo sempre avuto molte ambizioni: so per certo che abbiamo spesso sorpreso il nostro pubblico e che dobbiamo essergli grati se ha più volte tollerato il nostro modo di cambiare repentinamente il nostro stile".

Ben: "Ognuno dalla musica prende ciò che vuole, c’è chi ascolta ogni dettaglio e chi no, per qualcuno è solo una canzone che passa alla radio, qualcosa da fischiettare. Un musicista non sa mai se, e come, viene compreso".

Uno dei nuovi brani, No one knows we’re dancing, potrebbe descrivere un rave, da poco una legge li ha resi fuorilegge anche in Italia.

Ben: "È una canzone su un posto specifico, in un preciso momento, la domenica a West London. Mi è stata ispirata da quanto avveniva nelle mie serate da dj alla fine degli anni Novanta, quando la domenica sera mettevo musica deep house al Lazy Dog di Notting Hill, week end sempre pieni di gente e di personaggi che sono rimasti molto vividi nella mia mente: ci ho ripensato durante il lockdown, forse proprio per quel senso di comunità che era venuto meno nell’isolamento, e ho scritto il testo. È l’altra parte del disco, rispetto a quella psicologica: sono le canzoni che raccontano la voglia di far festa, di andare nei bar in cui si canta karaoke. Mi piace molto il modo in cui il disco si muove tra il dentro e il fuori di noi stessi".

Ci sono molte canzoni sul potere salvifico della musica. In Nothing left to lose cantate: "Kiss me while the world decades/ Kiss me while the music plays": sembra una canzone da "day after", l’amore che ci salva. Ci sono vari riferimenti a questo, come quando in Karaoke Tracey canta così: "To sing is to pray twice", cantare è pregare due volte.

Tracey: "Spesso le parole delle canzoni ti rivelano quali siano le tue ossessioni, per noi la musica è incredibilmente importante, durevole, e ha tanti significati ed effetti diversi, può essere curativa, celebrativa, può significare esprimersi o mettersi in connessione con gli altri. Sono sicura che anche per Ben, come per me, è una fonte di immaginario naturale. Significa molto anche per chi ascolta: sono sicura che una frase come ’Baciami mentre la musica suona’, anche se non sai bene di cosa si stia parlando, fa tornare in vita qualcosa dentro di te, sul baciare o sull’ascoltare la musica. Anche se non sembra così, sono immagini molto potenti".