Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  marzo 07 Martedì calendario

Su "Percoco. Il primo mostro d’Italia" di Pierluigi Ferrandini

“Fissò i suoi genitori addormentati, la madre sulla sinistra, vicino alla vetrata che affacciava su via Celentano, il padre a destra, accanto al trumò su cui foto di morti e qualche gioiello senza particolare valore ardevano al luccichio fioco di un lumino elettrico. Scelse la sinistra”. E’ la notte del 27 maggio 1956. Francesco Percoco ha ventisei anni e impugna un coltello. Di lì a pochi istanti affonderà la lama nei corpi indifesi dei suoi genitori. In un magnifico romanzo di qualche anno fa, Percoco, Marcello Introna cattura l’istante che precede l’eccidio. Ma in Percoco - Il primo mostro d’Italia, film in concorso al prossimo Festival del cinema di Bari (nelle sale dal 17 aprile, distribuito da Altre Storie) questa scena non la vedremo. E non vedremo nemmeno l’epilogo della strage, l’uccisione di Giulio, il fratello affetto da sindrome di Down che Francesco sopprime quella stessa tragica notte. Scelta precisa dello sceneggiatore e regista, Pierluigi Ferrandini, che pure prende le mosse dal libro di Introna. Particolare degno di nota: il nome di Ferrandini compare nei ringraziamenti del romanzo come “mio primo interlocutore in questa avventura”. Come dire: questo film nasce da lontano, e da un’ossessione condivisa.

Non c’è da stupirsi: siamo alle prese con una vicenda umana così devastante da suscitare, nello stesso tempo, orrore e pietà. Ma chi è Francesco Percoco? Perché una brutta sera decide di sterminare ciò che ha - o dovrebbe avere - di più caro al mondo? Compiuta la strage, racconta che la famiglia è in viaggio di piacere, chiude i corpi a chiave in stanze e armadi, spende un patrimonio in profumi e deodoranti, organizza festicciole, fa l’amore. Per Introna, Franco è “l’Esaurito”. Termine che sta ad indicare qualcuno che attraversa un pesante momento di disagio e non fa niente per nasconderlo. La radice del suo male è la famiglia. Un fratello è un piccolo delinquente, un altro, si è detto, malato. I genitori sono brave persone come tante. Magari la madre ripone una fiducia eccessiva in questo ultimo figlio, il prediletto, l’enfant gatè. Franco si sente gravato dal peso di una responsabilità esagerata: ha voltato le spalle all’università e non ha il coraggio di confessarlo.

La famiglia “normale” si rivela, al dunque, un “castello fasullo” dietro il quale si agita un groviglio di sentimenti irrisolti destinati, fatalmente, a deflagrare in un’orgia di sangue. Nella condotta post-delitto di Franco brillano l’indifferenza e la simulazione di un’impossibile normalità. Lo sterminio ha dunque il senso di una liberazione? “Tutti, quella sera, avevano saldato il conto della sua vita, le sue inettitudini, le sue patologie vere e false. Le sue frustrazioni erano finalmente andate in pari e suo fratello l’aveva pagata ancora più cara perché era un privilegiato. Nessuno si aspettava nulla da lui e questo era uno stato di cose per le quali l’Esaurito lo aveva sempre invidiato”. Poi, naturalmente, lo prendono. Al processo gli viene riconosciuta la seminfermità di mente e scampa l’ergastolo. Dei trent’anni che gli vengono comminati, ne sconta una ventina, poi esce, si sposa, insomma si rifa’ una vita. Muore a poco più di settant’anni.

Da questo materiale umano e narrativo indubbiamente incandescente, Pierluigi Ferrandini ha tratto un film di alto profilo. A partire da una Bari ormai luogo consacrato del cinema italiano: ora aspirante metropoli livida di tempeste marine, ora borgo sornione nella sua rispettabilità mercantile. Ma noi sappiamo che cosa si nasconde dietro il chintz immacolato e la lustra specchiera, la chiacchiera al bar e gli “allievi” crudi al circolo della vela, e il panico ci afferra alla gola. Sino al protagonista, Gianluca Vicari, impressionante in una fissità da perfetto “esaurito” che si tinge di costanti venature di ambiguità: per essere un infelice, questo ragazzo è troppo “mostro”. Ma è anche troppo infelice per essere “mostro” sino in fondo. In fondo, come hanno scritto due celebri criminologi, Ugo Fornari e Jutta Birkhof, quelli che chiamiamo “mostri” “sono persone che hanno fatto cose orrende, ma se noi cerchiamo di andare al di là dell’aspetto immediato dei fatti e leggiamo le loro vite, ci accorgiamo che essi non sono poi tanto diversi da noi… la loro vita è stata scandita da momenti frustranti e da eventi conflittuali, che essi ricordano con tristezza. Anche loro hanno sperimentato la sofferenza, la solitudine, l’abbandono, il confronto inferiorizzante, situazioni non appaganti”. Ma, a differenza della maggior parte di noi, tutto questo li ha schiantati. Non ce l’hanno fatta, e hanno scelto la via del male. L’Esaurito era uno di loro. Questo film forte e sensibile ce lo ricorda.