la Repubblica, 28 marzo 2023
Le relazioni pericolose dei fondi arabi con la finanza in crisi
Cacciato senza una riga di menzione, il presidente di Saudi National Bank, Ammar Al Khudairy, paga la scalata goffa della prima banca saudita al Credit Suisse, costata oltre un miliardo di dollari da novembre, su 1,46 investiti. Ma dietro il capro espiatorio c’è il sistema: il nuovo potere saudita, incarnato dal principe ereditario Mohammed Bin Salman, ha impresso uno slancio aperturista al Regno più ricco del mondo. E sfrutta il surplus delle vendite di greggio e gas a prezzi insperati per imporsi come nuovo parvenu della finanza globale.
Come in passato, unire a grandi fondi l’inesperienza, competenze parecchio autoctone e criteri di scelta “politici” porta minusvalenze. Ma che sarà un miliardo a fronte di 1.300 miliardi di ricavi addizionali (stima Fmi) che arabi, qatarini e pochi Paesi produttori si spartiranno entro quattro anni monetizzando le crisi energetiche? Solo Saudi Aramco, la major saudita, nel 2022 ha guadagnato 161 miliardi di dollari, record che straccia i 110 del 2021. I media internazionali descrivono un Medio Oriente fitto di procacciatori, e di manager da Europa e Usa in cerca di soci munifici e pazienti. Per loro,ogni crisi occidentale è spesso un’opportunità per entrare su un dossier: dietro al quale c’è anche il rapporto geopolitico con un Paese. Fu così dopo l’austerity anni ‘70, che vide il debutto dei fondi “non anglosassoni” nell’industria europea: l’Iran su Krupp, il Kuwait fund in Daimler Benz, la libica Lafico in Fiat. Nel crac successivo di Lehman (2008), erano le banche a corto di soldi: e così i fondi di Qatar, Libia, Abu Dhabi, Gic e Temasek (Singapore), si accomodarono tra i grandi soci di Barclays, Unicredit, Deutsche Bank, Credit Suisse, Ubs, ma anche Citi e Bofa negli Usa.
Dopo la pandemia arrivano in forza gli arabi: ma neanche scherzano Mubadala e il Qatar, che si è preso il 10% del colosso dell’energia tedesco Rwe in bond convertibili. IlWall Street Journal ha ipotizzato che il blitz su Credit Suisse sia stato imposto da Bin Salman, contro i dubbi dei banchieri locali, timorosi di perdere comprando il 9,9% dei titoli mentre i correntisti si dileguavano. Poi il 16 marzo Al Khudairy ci mise del suo: parlando a Cnbc dopo il crac della banca Usa Svb, e pur premesso che c’era «panico nell’intero mercato», invece di dare un bel no comment, o di dire vedremo, replicò alla giornalista che chiedeva se il socio saudita avrebbe messo altri soldi a Zurigo che «la nostra linea rossa è il 9,9%». E gli investitori, per l’appunto in panico, interpretarono nel modo peggiore, ossia che gli arabi lasciavano Credit Suisse al suo destino. Dopo due sedute di ribassi ferali le autorità svizzere la “sposavano” con Ubs, a un concambio che cristallizzava la rotta dei soci sauditi. La banca che ha «accettato le dimissioni» del querulo presidente è controllata dal fondo sovrano Pif, dotato di ben 600 miliardi. Nel 2016 ne mise 3,5 in Uber e 45 nel Vision Fund, con cui la giapponese Softbank investe in tecnologia: dapprima con profitto, poi dal 2021 con rossi miliardari. La dote di Riyad a Pif in cinque anni è quadruplicata, e la quota “straniera” è salita dal 9% al 25%. Entro il 2030 si punta a 1.000 miliardi, e il 30% oltreconfine. C’è ancora molto da sbagliare, o da rimediare.