la Repubblica, 28 marzo 2023
Le identità contese della cucina italiana
Sulla cucina italiana, sul suo valore e sulla sua storia ci sono troppi equivoci e soprattutto troppe strumentalizzazioni. Una semplice intervista che ho rilasciato qualche giorno fa al Financial Times è diventata l’innesco per una polemica nazionalistica che ha finito per assumere toni paradossali: si è arrivati persino a immaginare un complotto anti italiano nel momento in cui il governo Meloni ha presentato la candidatura della nostra cucina a patrimonio immateriale dell’Unesco.
È bastato che io ripetessi fuori dai confini nazionali quello che scrivo da anni nei libri e che racconto ogni settimana, insieme a Daniele Soffiati, nel Podcast “Doi Denominazione di Origine Inventata”: l’identità a tavola non esiste, la cucina è contaminazione.
Ormai basta accennare alla farina di insetti o alle evidenti origini americane di molte nostre ricette, come la carbonara, per far scattare reazioni pavloviane del tutto prive di senso. Per non parlare di quello che accade quando qualcuno si azzarda a introdurre qualche elemento creativo in ricette che si vorrebbero scolpite nel marmo,ma che molto spesso hanno una storia molto corta e per nulla lineare, come l’amatriciana.
Mi piacerebbe partire da una constatazione tanto evidente quanto assodata da chi, come me, si occupa di storia della cucina: è stato il libro dell’Artusi a fine Ottocento a diventare di fatto il primo e più importante manuale della cucina italiana. Ma La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene,prima di avere successo all’interno dei confini nazionali, divenne un testo fondante tra le comunità italiane di emigrati, in particolare quelle nel Nord America.
Ebbene i veri protagonisti della rinascita gastronomica italiana sono stati gli italiani d’America, che hanno imparato a maneggiare nuovi ingredienti, che hanno fatto della salsa di pomodoro il perno della nostra cucina, che hanno trasformato un prodotto di nicchia come la pasta nel piatto nazionale per eccellenza, che hanno inventato le pizzerie come le intendiamo oggi. Il famigerato “parmesan” del Wisconsin non è buono come il nostro parmigiano, ma paradossalmente è più simile a quello che mangiavano i nostri nonni, perché furono loro a portarlo in America negli anni Venti e Trenta secondo la ricetta dell’epoca.
Negare questo e continuare a raccontarci la favola degli italiani che hanno insegnato la cucina al resto del mondo, non è solo sbagliato dal punto di vista storico, ma è davvero offensivo nei confronti dei milioni di italiani che sono stati costretti a lasciare la loro terra per colpa della fame. In realtà gli italiani che sono emigrati non avevano nulla da insegnare in cucina e molto probabilmente hanno imparato a far da mangiare andando in giro per il mondo.
Soprattutto sul loro sacrificio, l’Italia ha costruito il boom economico, che ha definitivamente spezzato i vincoli della scarsità e della denutrizione che avevano caratterizzato le nostre classi popolari fino a quel momento. Il conquistato benessere permise agli italiani d’Italia di creare una cucina domestica nuova, frutto degli incroci e delle contaminazioni che arrivavano da coloro che erano emigrati e allo stesso tempo dai nuovi modelli di consumo veicolati dalla televisione e da Carosello: il tiramisù per esempio, con pavesini e mascarpone, nasce dopo i supermarket. Queste sono le radici nella nostra cucina, che non possono essere confuse con l’identità e la reputazione che il cibo e i prodotti italiani hanno oggi nel mondo.Noi italiani oggi siamo i primi consumatori di sushi in Europa, i terzi di kebab e le nostre città sono invase da Poke e Bubble tea, per non parlare di fast food e ristoranti etnici. Se davvero il gusto italiano facesse parte del nostro dna, come vorremmo far credere prima di tutto a noi stessi, non saremmo così disposti a cedere alle mode del momento. Continuare a raccontarci favolette edificanti sul ruolo di Isabella d’Este o di Pico della Mirandola nella storia dei tortelli di zucca e dello zampone di Modena, o di come Maria de’ Medici abbia insegnato a fare la besciamella ai francesi, o sul panettone nato alla corte di Ludovico Il Moro serve solo a spargere un’aura di leggenda su una cosa così terribilmente concreta come il cibo.
Il sospetto è che questa mistica della cucina nazionale sia solo il tentativo di tenere in piedi un’identità nazionale che abbiamo irrimediabilmente perduto. Per fare questo, però, ci stiamo giocando anche quest’ultimo baluardo; perché quando l’attenzione per l’origine dei cibi diventa prevalente rispetto alla qualità degli stessi è evidente che ci troviamo di fronte a un’operazione di marketing. Dietro questo richiamo a una storia e a un’origine mitizzate, ci sta la contrapposizione tra tradizioni alimentari diverse.
Il tentativo di cristallizzare la nostra cucina e con essa la nostra identità finirà per uccidere entrambe. Purtroppo, mi sembra che la goffa iniziativa del governo italiano di candidare la cucina italiana come patrimonio immateriale dell’umanità vada esattamente nella direzione di costruire un’identità immobile e soprattutto escludente: questo si, davvero in contraddizione con le nostre radici.