La Stampa, 28 marzo 2023
Niente fucili, siamo intellettuali
«Ho un problema alla vista»: per due giorni Gabriele D’Annunzio rimase all’Ospedale Militare. Vedeva uno sfarfallio e punti scuri, sosteneva, anche se appariva strano dal momento che aveva trascorso gli ultimi mesi a tavolino per comporre Il piacere il quale, appena pubblicato, stava avendo una strepitosa affermazione. Poco dopo venne ricoverato all’Ospedale a causa di «una nevralgia dello stomaco» e successivamente fu colpito da una febbre altissima a causa della malaria contratta in Maremma. La «nevrastenia» lo attaccò, come testimoniò il suo medico curante.
Malanni immaginari? Il Vate voleva sottrarsi al servizio di leva. Proprio così: il Comandante che guidò la spedizione di legionari per l’occupazione di Fiume, il futuro generale della Regia Aeronautica, non volle fare il servizio militare. Il 1° novembre del 1889 fu però costretto a far parte del quinto squadrone del quattordicesimo reggimento dei Cavalleggeri di Alessandria. «Se dico d’esser malato mi lasciano in riposo ma non mi fanno uscire. Se dico di star bene mi ammazzano di fatica», osservò disperato. «Mi pare che non potrò giungere a domani» e pensò al suicidio per sfuggire al fatto che «non sarò più un uomo ma un bruto come il mio cavallo, tra i bruti!».
Al contrario, invece, Marcel Proust, che non aveva alcuna simpatia per la guerra o per la violenza, trovò delizioso il periodo trascorso da diciottenne presso il settantaseiesimo reggimento di fanteria di stanza a Orléans. Furono mesi sereni in cui si liberò della presenza ossessiva della madre che lo chiamava «lupacchiotto», lo ingozzava di fette di torta e di tavolette di cioccolata. Fu però un soldato semplice di lusso, raccomandato dal celebre papà, il dottor Proust. Venne dispensato dalle cavalcate e dal salto a ostacoli, dormiva in un accogliente albergo perché aveva l’asma e disturbava la camerata, inoltre quando scrisse un rapporto pasticciò tutto: era meglio non averlo tra i piedi. «Non sto affatto male (tranne lo stomaco), e non soffro neanche più di quello stato generico di tristezza di cui quest’anno l’assenza da casa è, se non la causa, almeno il pretesto, e di conseguenza la scusa. Ma faccio molta fatica a concentrarmi, a leggere, imparare a memoria». Anche Proust dunque condivideva le perplessità del Vate, il quale sosteneva che il servizio militare è il «nemico di ogni fioritura intellettuale».
Adesso, a raccontarci l’esperienza di moltissimi scrittori alle prese con le levatacce all’alba e le marce forzate - da Ernst Jünger a Francis Scott Fitzgerald, da Arthur Rimbaud a Louis-Ferdinand Céline - è Giuseppe Scaraffia con le belle e coinvolgenti pagine di Scrittori in armi (Neri Pozza). Gli autori riformati, quelli che si evitarono la maledizione della divisa, furono veramente in maggioranza: Balzac, Flaubert, Mallarmé, Cocteau, Pasternak, D.H. Lawrence, Benjamin, Kafka, Huxley, Dylan Thomas. Le motivazioni? Théophile Gautier si ruppe un braccio sinistro. Prosper Mérimée era di debole costituzione. Henry James aveva preso un colpo alla schiena. Una bronchite e problemi polmonari affliggevano Yukio Mishima. Chi poi dovette per forza entrare in caserma ne fu profondamente disgustato, come ben illustra Giorgio de Chirico: «Appena mi approssimavo al distretto militare… avevo subito le narici gradevolmente stuzzicate da un puzzo che giungeva a zaffate e in cui in una bellissima sinfonia si mescolavano l’odore delle gavette unte, dei piedi non lavati, dell’acido fenico e del caffè tostato». A testimoniare che il fetore accompagnava la recluta pure quando era in libera uscita fu pure l’azzimato e ricercato Georges Simenon.
Il dottor Sigmund Freud il 6 maggio 1879 trascorse il ventitreesimo compleanno agli arresti: invece di partecipare alle esercitazioni si era imboscato e si era messo a tradurre Stuart Mill, a studiare le teorie di Darwin e i saggi sulla Grecia antica di Burckhardt. Anni dopo fu convocato per un mese a Olmütz, in Moravia, come chirurgo militare della riserva. «Sono incastrato», affermò, «in questo buco schifoso». Era stressato dalle spedizioni nei boschi che iniziavano alle tre e mezza del mattino per protrarsi fino al pomeriggio, quando cominciava l’attività medica. Freud stava studiando nuovi ritrovati per contrastare l’affaticamento e si consolò con la cocaina. Anche dopo averne assunto qualche dose gli ufficiali continuarono però ad apparirgli malvagi e come una specie di feccia: «Sono esseri miserabili, ognuno invidia il suo pari, tiranneggia il sottoposto e ha paura del superiore».
In gran maggioranza gli scrittori furono restii alla naja: l’inutilità delle esercitazioni, il senso di oppressione ma soprattutto l’odio per la gerarchia come forma di prevaricazione dei più deboli, uniti al senso del tempo sottratto alla propria attività, faceva scattare il gran rifiuto. E questo spesso accadde anche agli artisti guerrafondai e amanti dello scontro armato.