Corriere della Sera, 28 marzo 2023
Biografia di Elisabetta Sgarbi raccontata da lei stessa
Chi ha scritto: «Trattando le parole come persone»?
«Io. La parola per me è sacra, e trattare le parole come persone significa usarle con amore, credendo nel valore della parola come si deve credere nelle persone».
Chi sono le più importanti della sua vita?
«Alcune non ci sono più, ma continuano a esserlo, perché la mia visione religiosa dell’esistenza pretende di far vivere anche i morti. E questa casa dove lei è adesso ne è la testimonianza».
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Dunque, i suoi genitori.
«Sono stati fondamentali, a loro devo tutto. Mio padre era una persona piuttosto timida e lo dimostra il fatto che ha seguito una famiglia complessa come la nostra — mia madre, mio fratello e me — con grande umiltà e capacità di ascolto. Ecco: mi ha insegnato ad ascoltare gli altri».
E sua madre?
«Lei mi ha costretta a superare l’insicurezza. Affronto le cose accompagnata sempre da questo senso di non essere all’altezza di ciò che faccio. Ma lei mi ha aiutato a pensare che ogni ostacolo deve essere superato».
Suo fratello Vittorio?
«È stato precoce per intelligenza e voracità nella lettura. Mi precede ed è stato un confronto costante che mi ha messo alla prova».
Nessuna intervista restituirà mai tutta l’esperienza di Elisabetta Sgarbi, nostra signora dell’editoria (vedi alla voce: La nave di Teseo), del cinema (il suo ultimo docufilm, Nino Migliori. Viaggio intorno alla mia stanza, sarà proiettato oggi a Parigi) e della cultura (La Milanesiana è una delle sue creature). Mentre meriterebbe un’intervista a parte la casa-museo di Ro Ferrarese dove ci incontriamo: quattromila opere d’arte e duecentomila libri ci osservano e bisbigliano da una stanza a un’altra, nascoste come in un gioco di scatole cinesi. Pomponio Gaurico sussurra ad Artemisia Gentileschi che accenna qualcosa a Guercino che lo dice a Corcos che riferisce a Balthus che ne parla con Stern e lui con Fausto Pirandello, con Niccolò dell’Arca e Adolfo Wildt. La Storia fa il suo giro e per non restare storditi bisogna appoggiarsi a un po’ di deperibile dolcezza, un quadretto appeso alla porta della cucina, lì dove avrebbe posato lo sguardo dal suo posto a capotavola Giuseppe Sgarbi detto Nino se fosse stato ancora vivo, perché è la lettera in cui Papa Francesco nomina la figlia membro della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, un anno fa.
Come andò l’incontro con il Pontefice?
«Quella volta non andai, perché ero impegnata con la Milanesiana. Ma l’ho incontrato in udienza il 19 febbraio con altri della Fondazione Ente dello Spettacolo e le istituzioni del cinema. Ero fiera e orgogliosa di andarci come editrice e regista».
Con lei c’era Eugenio Lio.
«Filosofo e teologo, è parte importante della mia vita professionale e privata. Con lui mi confronto moltissimo. Era entrato alla Bompiani nel 2000 come editor. E con Mario Andreose, Umberto Eco e altri, è tra i fondatori della Nave di Teseo».
Un’immagine di Eco?
«Lo rivedo quando andiamo tutti e quattro nello studio notarile di Piergaetano Marchetti e con un entusiasmo da ragazzino mi ascolta raccontare il piano editoriale di una ipotetica casa editrice che avrebbe dovuto sottrarsi a ogni logica di grande concentrazione editoriale».
Gli analisti finanziari vi davano due anni di vita.
«E invece ne sono passati sette e La nave di Teseo ha pubblicato mille titoli, di cui il 30 per cento è catalogo, la memoria letteraria di un autore: Coelho, De Carlo, Scerbanenco, Rezza, Houellebecq... Ricordo che 20 giorni dopo la morte di mia madre consegnai le dimissioni da Bompiani: un taglio netto dopo 25 anni di lavoro e risultati. Tre mesi dopo mancò Eco. Debuttammo con il suo Pape Satàn Aleppe, anche se non avrebbe voluto essere il primo, in nome dell’indipendenza, anche dai fondatori».
Qual è il bestseller?
«In assoluto, con il suo catalogo, Paulo Coelho. Poi Joël Dicker, che ha venduto un milione di copie. Tra gli italiani, Sandro Veronesi: il Colibrì ha superato le 300 mila».
Il suo talento più grande?
«Credo sia una forma di istinto verso le persone».
Istinto applicato ai libri?
«Per esempio Edith Bruck. Non si era mai visto un papa andare a casa di un’autrice nei panni del lettore».
L’atto più coraggioso?
«Pubblicare Woody Allen in lockdown, nonostante le accuse dell’ex moglie e del figlio, e uscire comunque in ebook a prezzo pieno. Ho vinto la mia scommessa. L’opera letteraria è indipendente dalla vita morale delle persone. Vedi Caravaggio».
Gli Extraliscio sono un’altra scommessa vinta.
«Me ne sono innamorata grazie a Ermanno Cavazzoni. Il film che ho diretto e prodotto con la mia casa di produzione Betty Wrong è stato presentato a Venezia, candidato ai Nastri d’Argento e ha ricevuto i Premi Fice e Siae».
Quanto dorme per notte?
«Quattro ore».
Vittorio ha ereditato da vostra madre il gesto di spostarsi il ciuffo con la mano. E lei?
«Non penso a un gesto. Ma quando mando un messaggio alle persone cui voglio bene, chiudo scrivendo tre volte ciao. È come se volessi far parlare lei: era il suo saluto all’ospedale, negli ultimi tempi, con un’allegria che è anche un segno di generosità».
Parla ancora con i suoi?
«No, sarei pazza. Ma mi piace andare a trovarli al cimitero, nella cappella di famiglia a Stienta dove ho messo delle opere d’arte perché gli tengano compagnia. Amo i riti, come il Piccolo Principe con la volpe e la rosa. È capitato che leggessi a mia madre a voce alta gli articoli di mio fratello: lui stava male ed era il mio modo di onorare la promessa fatta a lei di stargli vicino».
Le dispiace non aver avuto figli?
«Sì, molto. Ma anche questo fa parte del mio tuffarmi con serietà ed estremismo nelle cose. Pensavo che non sarei riuscita a dividermi tra lavoro e famiglia. Così ho fatto la scelta di non avere figli. Ma penso sia stato un errore».
Perché porta sempre gli occhiali scuri, anche di notte?
«David Lynch alla stessa domanda risponde che li porta perché guarda al futuro e il futuro è molto luminoso. Questa frase la voglio fare mia».