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 2023  marzo 28 Martedì calendario

Il caso di Pietrostefani e degli ex Br

A quasi due anni dall’operazione «Ombre rosse» pianificata dai governi e dalle polizie di Parigi e Roma per riportare in Italia dieci «terroristi e assassini», come continua a chiamarli il ministro della Giustizia d’Oltralpe Eric Dupond-Moretti, la Corte di cassazione francese sta per pronunciare l’ultima parola su questa riedizione della quasi quarantennale questione degli «esuli», o «rifugiati» o «latitanti» che lì hanno trovato riparo dalle condanne inflitte durante gli «anni di piombo». E tutti prevedono un nuovo, a questo punto definitivo, rifiuto. A meno di clamorosi colpi di scena, che potrebbe riportare la questione alla Corte d’appello.
Il nome più noto dell’elenco è anche l’unico che non ha mai fatto parte di una banda armata, giudicato più tardi rispetto agli altri. Giorgio Pietrostefani è stato un dirigente di Lotta continua che ha sempre agito alla luce del sole tranne quando, secondo la sentenza di condanna, partecipò alla pianificazione dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato a Milano il 17 maggio 1972. Pietrostefani, che compirà ottant’anni a novembre, andò in Francia alla vigilia dell’ultimo verdetto (2000) mentre gli altri due condannati (Adriano Sofri e Ovidio Bompressi, come lui proclamatisi sempre innocenti per quel delitto) rientrarono in carcere per scontare la pena.
Altre sei persone comprese nella lista aderirono invece alle Brigate rosse, e tra loro due donne condannate all’ergastolo: Marina Petrella, 68 anni, e Roberta Cappelli, 67, entrambe appartenenti alla «colonna romana». Petrella è tra responsabili dell’omicidio del generale Enrico Galvaligi, ucciso la sera del 31 dicembre 1980, e fu coinvolta nel sequestro del giudice Giovanni D’Urso; nel 2008 fu vicinissima all’estradizione finché l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy decise di bloccarne la riconsegna (per le sue precarie condizioni di salute) su sollecitazione della cognata, l’attrice italiana Valeria Bruni Tedeschi.
Anche Cappelli è stata condannata per il delitto Galvaligi, a cui si aggiunge l’omicidio dell’agente di polizia Michele Granato assassinato nel novembre ‘79. Tra i reati addebitati alle due ex brigatiste c’è il ferimento del vice-questore della Digos di Roma Nicola Simone, colpito il 6 gennaio 1982, per il quale fu ritenuto responsabile pure Giovanni Alimonti, 67 anni, che dovrebbe scontare undici anni e mezzo di prigione.
Delle Br hanno fatto parte anche Enzo Calvitti, 68 anni, condannato a 18 anni e 7 mesi di prigione per associazione sovversiva, banda armata e altri reati, e Maurizio Di Marzio, 62 anni, chiamato a espiare una pena (presumibilmente prescritta, ma l’Italia insiste nel dire di no) di cinque anni e nove mesi. E ancora Sergio Tornaghi, 65 anni, militante della colonna milanese «Walter Alasia»: su di lui pesa un ergastolo per l’uccisione di Renato Briano, direttore generale della «Ercole Marelli», assassinato la mattina del 12 novembre 1980 mentre andava al lavoro in metropolitana.
A completare l’elenco ci sono tre ex appartenenti a formazioni cosiddette «minori» del terrorismo italiano. Uno è Narciso Manenti, 65 anni, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri, freddato a Bergamo il 13 marzo 1979, nella sala d’aspetto del medico dove aveva accompagnato il figlio di 10 anni, per una visita. L’attentato fu rivendicato da Guerriglia proletaria, sigla considerata vicina a Prima linea.
Un altro è Luigi Bergamin, oggi settantaquattrenne, con una pena di 16 anni e 11 mesi di reclusione per vari reati tra i quali gli omicidi dell’agente della Digos milanese Andrea Campagna e del maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro; sono due dei quattro delitti consumati dai Proletari armati per il comunismo confessati da Cesare Battisti al suo rientro in Italia, dopo la cattura avvenuta a gennaio 2019 che pose fine a una lunga latitanza vissuta in larga parte proprio in Francia, da cui fuggì nel 2004 per evitare una probabile estradizione, e poi in Brasile.
La pena di Bergamin era stata dichiarata «estinta per prescrizione» dalla Corte d’appello di Milano, ma una sentenza della Cassazione ha successivamente annullato quel verdetto.
L’ultimo della lista è Raffaele Ventura, 73 anni, già militante delle Formazioni comuniste combattenti, condannato a 24 anni e 4 mesi per l’omicidio del brigadiere di polizia Antonio Custra ucciso a Milano il 14 maggio 1977, durante i furiosi scontri di piazza in cui fu scattata la famosa foto del giovane incappucciato, armato di pistola, con le gambe piegate mentre prende la mira ad altezza d’uomo. Un’icona degli «anni di piombo», prolungati fino a oggi con l’operazione «Ombre rosse».