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 2023  marzo 28 Martedì calendario

I rapporti tra Stalin e Mussolini

I rapporti tra l’Italia fascista e l’Unione Sovietica comunista tra il 1922 e il 1939 furono molto più intensi e cordiali di quanto ci si potrebbe immaginare. In particolare, tra il 1929 e il 1934. Tra l’Italia di Mussolini e l’Urss di Stalin fu addirittura stipulato (il 2 settembre 1933) un trattato di non aggressione, amicizia e neutralità. Questi scambi proficui – scrive Maria Teresa Giusti in Relazioni pericolose. Italia fascista e Russia comunista di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino – si verificarono a dispetto di «contraddizioni inevitabili, vista l’inconciliabilità tra i due regimi». Ma tali contraddizioni furono «abilmente e consapevolmente celate da Roma e da Mosca, in nome degli interessi comuni». Interessi comuni ai quali si aggiunse però qualcosa in più: «L’odio senza appello per le democrazie liberali e per il parlamentarismo». E di conseguenza «gli atteggiamenti negativi manifestati verso i regimi presso i quali paradossalmente cercavano credito e legittimazione».
Un tema, questo, che aveva già affascinato Rosaria Quartararo con Italia-Urss 1917-1941 (Esi), Giorgio Petracchi in La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche 1917-1925 (Laterza) e Matteo Pizzigallo in Mediterraneo e Russia nella politica italiana (1922-1924) (Giuffrè). Luciano Zani nel saggio dedicato alle «rivoluzioni antagoniste», quella bolscevica e quella fascista, pubblicato in un volume curato da Emilio Gentile, Modernità totalitaria. Il fascismo italiano (Laterza) – aveva preso nota delle curiose «inaspettate simmetrie» tra lo Stato comunista e quello fascista.
Fin dal 1922 Mussolini lascia trapelare la volontà di riconoscere lo Stato sovietico. Puntava – scrive Giusti – a reinserire la Russia comunista nella comunità internazionale «in modo che essa potesse appoggiarlo nello sforzo di controbilanciare il controllo di Francia e Gran Bretagna nel Mediterraneo e in Europa orientale». Particolarmente «in quell’area lasciata sguarnita dal crollo dell’impero austro-ungarico». Mussolini condivideva questa sorta di pragmatismo con Dino Grandi e Giuseppe Bottai. I quali lo incoraggiavano a tener distinto l’aspetto ideologico dello Stato sovietico dai vantaggi che la Russia poteva portare sotto il profilo pratico. In qualche realtà neanche lo scoppio della Seconda guerra mondiale (1939) e l’ingresso dell’Italia nel conflitto (1940) interruppe questi rapporti. L’Italia fascista fornì know-how ai sovietici fino al 1941 quando la Germania hitleriana invase l’Urss. Del resto, peccò di ingenuità lo stesso Stalin se si considera che l’ultimo treno merci dall’Urss, carico di materie prime per la Germania, attraversò il confine sovietico nella notte tra il 21 e il 22 giugno del 1941. Cioè l’immediata vigilia dell’attacco nazista.
Cosa pensavano i comunisti russi dell’Italia dei primi anni Venti? Criticavano aspramente i socialisti italiani, «ritenuti incapaci di fare alcunché». Fra i liberali salvavano solo Giovanni Giolitti. Sulla leadership fascista avevano una discreta considerazione di Mussolini ma ritenevano che fosse «circondato da incapaci e da profittatori». Giudicavano la nostra politica estera asservita all’Inghilterra (in particolare Carlo Sforza). Quell’Inghilterra che sarà la prima al mondo a riconoscere il governo dei soviet «battendo di pochi giorni l’Italia di Mussolini». E risulta che il premier britannico James Ramsay MacDonald avesse provato a coordinarsi con il governo italiano suggerendo l’invio non già di ambasciatori ma solo di incaricati di affari. Ma probabilmente si trattava di un tentativo inglese di rallentare le operazioni per dare al proprio Paese l’opportunità di muoversi per primo. Mossa che fu annunciata con grande enfasi dalla «Pravda», organo ufficiale del Pcus, la mattina del 6 febbraio 1924.
L’Italia (liberale), pur senza riconoscerla, aveva già firmato un importante accordo commerciale con l’Urss nel dicembre 1921, dieci mesi prima della marcia su Roma. Ma i contatti risalivano al marzo del 1920, quando il rappresentante russo a Roma Vodovozov accompagnò a Copenaghen – nelle vesti di interprete – una delegazione dei socialisti guidata da Nicola Bombacci (di lì a qualche mese tra i fondatori del Partito comunista d’Italia) che avrebbe dovuto incontrare i sovietici. Prima di lasciare l’Italia Vodovozov aveva incontrato Francesco Saverio Nitti assieme a Salvatore Contarini (l’uomo che nel 1909 aveva organizzato la visita in Italia dello zar Nicola II). I due lo pregarono di informare la delegazione russa a Copenaghen della nostra disponibilità a ristabilire rapporti politici ed economici con Mosca. Lenin accolse con favore questa offerta e a gennaio del 1921 nominò un altro rappresentante a Roma: Vaslav Vorovskij. Il quale entrò immediatamente in dissidio con Vodovozov (da lui considerato un informatore del Komintern) e ne chiese la rimozione.
Vorovskij ottenne dal ministro degli Esteri del suo paese, Georgij Cicerin, i pieni poteri per condurre la trattativa sull’accordo commerciale preliminare con l’Italia firmato il 26 dicembre del 1921 – ma concluso nell’autunno del 1923 e ratificato nel febbraio del 1924 – con il quale riprendevano i rapporti commerciali ed economici tra i due Paesi. Se si osservano queste date ci si rende conto di come i sovietici considerassero irrilevante il fatto che nel frattempo erano giunti al potere i fascisti di Mussolini (ottobre 1922).

Ma non tutto filò liscio. Tra la fine del 1922 e i primi mesi del 1923 – ricostruisce Maria Teresa Giusti – si verificò un inasprimento dei rapporti italo-sovietici «causato dalle rivelazioni sui continui tentativi del Komintern di interferire negli affari italiani attraverso l’azione del Partito socialista e del neonato Pcd’I». Oltreché dalla repressione anticomunista intrapresa dal regime. Malgrado il «promettente incontro» tra un rappresentante russo e Mussolini dei primi di dicembre 1922, l’«Avanti!» il 29 di quello stesso mese aveva pubblicato un manifesto proveniente dal Komintern che inneggiava alla «resistenza contro il fascismo». Furono subito arrestati alcuni dirigenti comunisti, tra cui il fondatore del partito, Amadeo Bordiga, trovato in possesso del manifesto del Komintern. Fu poi sospesa l’attività della società Lloyd Triestino di navigazione in Russia, bloccata l’esportazione di merci russe in Italia con successivo sequestro.
Vorovskij perse le staffe e scrisse al Cremlino avvertendoli che qualunque «stupido incidente» avrebbe compromesso i negoziati a dispetto anche delle buone intenzioni di Mussolini. Quindi riferendosi al sequestro in casa di Bordiga del proclama del Komintern concludeva «l’idiozia dei nostri cari compagni non ha confini». Poi il delegato russo in Italia – in contrasto con Anton M. Heller delegato del Komintern in Italia – usò parole sprezzanti nei confronti dei comunisti italiani accusandoli di essere deboli e di agire «lentamente e con stanchezza».
Vorovskij fu allora convocato da Mussolini: provò a convincerlo che il Komintern e il vertice del partito in Russia erano cose separate. Mussolini finse di credergli forse perché sapeva che Lenin aveva avuto un malore (sarebbe morto nel gennaio del 1924) e immaginava quei conflitti interni fossero condizionati dalla lotta per la successione. Comunque, nel febbraio del 1923 Vorovskij si mostrò preoccupato dell’azione del Komintern in Italia. «Se noi riuscissimo a trovare un modus vivendi con Mussolini e a firmare con lui un accordo», scrisse a Maksim Litvinov, benvoluto da Stalin e vice di Cicerin (destinato tra l’altro ad essere nel 1930 il suo successore), «le qualità personali di Mussolini nonché gli interessi del nazionalismo italiano farebbero sì che nel caso in cui in qualsiasi altro Paese dovesse spuntare l’idea di intervenire e combattere contro il bolscevismo l’Italia sarebbe l’ultima ad aderire a questo movimento». A Vorovskij fu consentito, da Mosca, di spingersi oltre. Prese contatto con dirigenti del Partito comunista per convincerli della «necessità» per l’Urss di stipulare «un accordo ufficioso con il governo fascista sui limiti e sulle forme della propaganda da diffondere da entrambe le parti». E ottenne un loro assenso di massima.
Ma, a sorpresa il 10 maggio del 1923, Vorovskij fu ucciso da un ufficiale della guardia bianca a Losanna. Al suo posto in luglio fu nominato Nikolaj Jordanskij. Mussolini temette che si dovesse ricominciare daccapo.
Ma non fu così. A sorpresa nel novembre del 1923 Nicola Bombacci (che vent’anni dopo, lasciato il Partito comunista, seguirà Mussolini a Salò per essere infine, il 28 aprile 1945, fucilato dai partigiani a Dongo) pronunciò un discorso in Parlamento per cantare le lodi di un riconoscimento italiano della Russia bolscevica. «Non è chiaro», scrive Giusti, «se il discorso fosse una sua iniziativa oppure se fosse stato imbeccato da Jordanskij per sondare il clima e trasmettere all’Aula parlamentare i propositi di Mosca verso l’Italia». Ma il Pcd’I seguì Bombacci e il 5 dicembre del 1923 diede alle stampe un comunicato in cui sosteneva la necessità di procedere a quel reciproco riconoscimento allo scopo di difendere gli interessi del proletariato russo. Grande fu lo scandalo tra i partiti antifascisti. Anche perché le conseguenze di quel riconoscimento furono per certi versi sorprendenti.

Clamoroso è ad esempio il caso di come i comunisti russi pochi mesi dopo la morte di Lenin furono (o si sentirono) costretti a «prendere atto» senza batter ciglio del rapimento e dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Il 14 marzo del 1924 Konstantin Jurenëv, neorappresentante plenipotenziario dell’Urss in Italia, si disse «felice» di inaugurare «senza dubbio» una «nuova era nelle relazioni italo-sovietiche». Due mesi dopo Mussolini gli annunciò che lo avrebbe invitato a colazione. E quando il 10 giugno venne rapito Matteotti, Jurenëv si guardò bene dall’annullare quell’appuntamento. Qualche esponente del Partito comunista – non sappiamo chi – gli segnalò l’inopportunità di quel genere di incontro. Ma lui reagì con un’alzata di spalle. L’8 luglio scrisse a Georgij Cicerin, commissario agli Esteri sovietico: «Oggi ci ha fatto visita un compagno del posto chiedendomi se il ricevimento ci sarà lo stesso; quando glielo ho confermato si è rabbuiato in viso». Poi aggiunse: «Considerando la possibilità che questi “riferisse ai superiori”, gli ho ripetuto ancora una volta che la situazione lo impone e non potevo evitare quell’impegno».

Sembra, scrive Maria Teresa Giusti «che la scomparsa di Matteotti non fosse una questione di tale importanza da dover interrompere o compromettere la recente ufficiale ripresa delle relazioni italo-sovietiche». La conferma di quella colazione fu decisa, come hanno scritto Mihail Geller e Aleksandr Nekric in Storia dell’Urss dal 1917 a oggi (Rizzoli), malgrado la percezione dell’evidente imbarazzo che una posizione di indifferenza dell’Unione Sovietica di fronte a quell’orribile delitto avrebbe causato all’immagine dello Stato socialista. E nonostante le proteste sia della sinistra sia dei liberali.
Jurenëv invia a Cicerin diverse relazioni per descrivergli la situazione politica italiana in quel preciso frangente. «La debolezza dei gruppi e dei partiti politici, la loro incapacità di approfittare della situazione politica vantaggiosa», scriveva l’ambasciatore il 17 giugno, «hanno in un certo senso tranquillizzato Mussolini». Le manifestazioni antifasciste in Francia avevano in un certo senso avvantaggiato il dittatore. Difatti la stampa fascista era scesa in campo sostenendo che «il caso Matteotti è una questione che riguarda solo gli italiani e che ogni vero patriota ha il compito di difendere la propria nazione respingendo gli attacchi di insolenti socialisti e dei governi di Paesi stranieri». In un rapporto successivo (18 luglio) Jurenëv prevedeva una sorta di stabilizzazione del fascismo.
Certo, la stampa russa (i settimanali «Ogonëk» e «Prozektor», quest’ultimo allegato alla «Pravda») descriveva Mussolini come carnefice e Matteotti come vittima. Ma l’ambasciatore non indietreggiava. La diplomazia russa e lo stesso Cicerin non facevano alcun affidamento sull’azione dei comunisti italiani giudicati «incapaci e a tratti pericolosi per le loro azioni di propaganda antifascista legata al Komintern». Del resto, prosegue Giusti, il Partito comunista d’Italia (Pcd’I) «si trovava in una posizione a dir poco scomoda e ambigua». Il Partito comunista era perseguitato all’interno dal regime che all’esterno trattava con l’Urss per la ripresa delle relazioni politiche e commerciali. Mussolini seppe approfittare di questa ambiguità e chiese insistentemente al Commissariato agli Esteri russo di fermare l’azione di propaganda antifascista promossa dal Komintern e dai partiti della sinistra italiana. Il suo scopo evidente era quello di creare malumori tra l’Internazionale comunista e il ministero degli Esteri nonché di scompaginare le forze dell’opposizione. E fu (purtroppo) coronato da successo.