Corriere della Sera, 27 marzo 2023
Noi paghiamo i privilegi delle regioni a statuto speciale
Si narra che il cancelliere tedesco abbia chiesto a Prodi: «Fammi avere la cittadinanza di Bolzano, così potrò passare una vecchiaia prosperosa». A dire il vero l’idea non dispiace a nessuno, anzi: il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata, si ispira grossomodo proprio alle Regioni a statuto speciale. Se il decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 2 febbraio 2023 avrà anche il via libera dal Parlamento, diventerà legge, come annunciato, entro l’inizio del 2024. Allora per cominciare vediamo perché in Italia abbiamo 5 Regioni a statuto speciale.
Cosa hanno in comune
L’origine risale all’art.116 della Costituzione del 1948. I commi 1 e 2 sanciscono che «Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale». Le ragioni della scelta hanno radici diverse: la forte spinta indipendentista in Sicilia; le rivendicazioni austriache in Trentino-Alto Adige; la prevalenza del dialetto francese in Valle d’Aosta; la complessità linguistica e l’influenza dell’allora regime comunista jugoslavo in Friuli-Venezia Giulia; la povertà secolare in Sardegna.
Invece il ddl Calderoli si rifà al comma 3 nato dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001, che conferisce alle Regioni a statuto ordinario (Rso) la possibilità di vedersi attribuite «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» in 23 materie tra cui istruzione, salute, ambiente, internalizzazione delle imprese, tutela e sicurezza del lavoro e produzione di energia. La norma nasce su iniziativa del governo D’Alema alle prese con le rivendicazioni di autonomia della Lega Nord e diventa legge sotto il governo Berlusconi. In cosa consiste la similitudine fra le Regioni a statuto speciale e il ddl Calderoli? Nel principio che ogni Regione possa negoziare con lo Stato i settori che intende gestire in proprio trattenendo i tributi equivalenti.
Entriamo allora nel vivo del meccanismo che regola le Regioni a statuto speciale con l’analisi di Massimo Bordignon, Federico Neri, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi per l’Osservatorio dei conti pubblici italiani della Cattolica.
Quanto trattengono le Rss
Il punto sostanziale è quello di trattenere per sé la gran parte delle imposte: la Valle d’Aosta si tiene il 100% di Irpef, Ires (imposta per le società), Iva e accise sui carburanti; le Province autonome di Trento e Bolzano il 90% e l’80% di Iva; il Friuli-Venezia Giulia il 59% e il 30% delle accise; la Sicilia il 71% dell’Irpef, il 100% dell’Ires e il 36% di Iva; e la Sardegna il 70% su tutto e il 90% di Iva. Con questi soldi si pagano: sanità, assistenza sociale, trasporti e viabilità locali (che però si pagano in proprio anche Regioni come Lombardia, Toscana e Lazio), manutenzione del territorio, infrastrutture per l’attrazione turistica. La Valle d’Aosta e le due province del Trentino si finanziano anche l’istruzione, ovvero gli stipendi degli insegnanti.
Che cosa paga lo Stato
Lo Stato paga tutto il resto: le spese per la giustizia (Procure e tribunali), le forze dell’ordine, le infrastrutture di carattere nazionale (come la rete ferroviaria, i trafori, pezzi di autostrada, a partire da quella del Brennero), i servizi Inps, oltre alla macchina politica e amministrativa statale. Tutte spese che sono finanziate dalla fiscalità generale, alle quali queste regioni non partecipano, o lo fanno in piccola parte.
Costi a Roma, vantaggi alle Regioni
A conti fatti, come mostrano i dati dei Conti pubblici territoriali, lo Stato in media spende all’anno per ogni cittadino italiano che vive nelle Regioni a statuto ordinario 10.737 euro, tanto quanto spende per un cittadino valdostano (10.708), per un abitante del Friuli-Venezia Giulia 12.170, per un trentino 9.343, un altoatesino 9.222, un sardo 9.666, e per un siciliano 8.214. Lo Stato, dunque, non ha di fatto spese minori, in compenso le Rss hanno il doppio delle risorse da utilizzare per i loro territori: la media delle spese per i propri cittadini è di 7.096 euro pro capite contro i 3.688 delle altre Regioni. E poi quando c’è un problema si batte cassa, come è il caso della Sicilia, che sui 12 miliardi che gli servono ogni anno per la sanità, 6 se li fa dare dallo Stato.
Che cosa fanno con i soldi in più
Nelle Regioni a statuto ordinario le spese correnti per l’istruzione (stipendi degli insegnanti, materiale didattico, personale amministrativo, ausiliare, ecc.) pesano in media su ogni cittadino 815 euro l’anno. Trento e Bolzano possono permettersi di spendere rispettivamente 1.495 euro pro capite e 1.304, e la Valle d’Aosta 1.225. Tradotto: il dirigente scolastico di un liceo a Trento guadagna 99.656 euro lordi l’anno, mentre a Vicenza, a parità di anzianità di servizio non supera i 63.000 euro. E per quel che riguarda l’edilizia scolastica Bolzano può permettersi di investire 205 euro pro capite, Trento 109 e la Valle d’Aosta 60, contro la media di 36 euro delle Regioni a statuto ordinario. Lo stesso discorso vale per il personale della pubblica amministrazione, che è più numeroso e quindi può offrire servizi più capillari ai cittadini. È vero che dovendo svolgere più funzioni è necessaria una maggiore presenza di personale dipendente dalla Regione, ma quel personale è anche pagato meglio: la spesa pro capite è di 2.580 euro contro la media di 1.862 delle altre Regioni.
Ingiustificabili, invece, gli stipendi dei consiglieri regionali, come mostra un’elaborazione dati di Matteo Boldrini (Luiss-Cise), Silvia Bolgherini (Università di Perugia) e Luca Verzichelli (Università di Siena). Tra indennità e rimborso forfettario, i consiglieri senza altri incarichi della Val d’Aosta (124 mila abitanti) si mettono in tasca 7.871 euro al mese, 8.800 quelli del Friuli-Venezia Giulia, circa 10.500 in Trentino-Alto Adige e Sardegna, 11.100 in Sicilia. Giusto per fare un confronto con Regioni che hanno più o meno lo stesso numero di abitanti: nelle Marche siamo a quota 9.100, mentre il consigliere dell’Emilia-Romagna ne incassa 7.250.
Che cosa può succedere
I precedenti tentativi di regionalismo differenziato sinora sono finiti nel nulla. La prima a partire è la Toscana con la proposta degli enti locali del 2003 di ottenere «autonomia speciale nel settore dei beni culturali e paesaggistici», ma la procedura non viene portata avanti. Nel 2017 l’Emilia-Romagna tenta di avviare un negoziato per gestirsi l’internazionalizzazione delle imprese, ambiente e sicurezza sul lavoro. Ci riprova nel 2019 sull’Irap, che è una tassa regionale: vorrebbe applicare un’aliquota più bassa alle aziende che stanno sui crinali di collina, perché più svantaggiate di quelle che stanno a valle. Niente da fare. In Lombardia e Veneto la richiesta di avviare trattative con il governo passa dai due referendum del 22 ottobre 2017.
Adesso dipenderà da come sarà il testo finale della legge. Se il criterio guida sarà quello della programmazione, ovvero di capire qual è il soggetto che a parità di risorse può fare meglio, potrebbe essere una buona cosa. Prendiamo i fondi del Pnrr per l’edilizia scolastica: sono andati ai Comuni saltando le Regioni, ma molti Comuni quei progetti non saranno in grado di realizzarli per mancanza di competenze.
Certo, se dal nulla si va invece verso 20 Regioni autonome il rischio è di un caos regolamentare, amministrativo e di cassa, perché quando i soldi non bastano chi interviene? Durante l’emergenza Covid nelle 5 Regioni speciali non solo i ristori sono stati finanziati con la fiscalità generale, ma lo Stato ha anche azzerato il loro concorso alla finanza pubblica, che s’aggira sui 2,3 miliardi di euro l’anno.