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 2023  marzo 27 Lunedì calendario

Perché i migranti scappano dalla Tunisia

I numeri degli arrivi dalla Tunisia di questi ultimi giorni raccontano ancora una volta un Mediterraneo di morti e dispersi.
Sono state 60 le vittime del mare provenienti dalla Tunisia negli ultimi giorni, 34 le persone migranti disperse venerdì dopo che un’imbarcazione è affondata al largo delle coste tunisine, portando a cinque il numero dei naufragi in due giorni e portando il numero totale dei dispersi a 67, numeri in costante aggiornamento.
Duemila gli arrivi solo nelle ultime ore, mentre dall’altra parte della costa, continua la conta dei morti. Il giudice tunisino Faouzi Masmoudi ha detto a Reuters che sono morte sette persone nel ribaltamento di una barca al largo di Sfax e secondo un funzionario della Guardia Nazionale, Houssem Jebabli, la Guardia Costiera avrebbe fermato 56 imbarcazioni dirette in Italia in due giorni, arrestando tremila migranti per lo più provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana.
Secondo le Nazioni Unite, dall’inizio dell’anno, cioè in poco meno di tre mesi sono arrivate dalla Tunisia 12 mila persone. Lo scorso anno erano state 1300. Dieci volte tanto.
La premier Giorgia Meloni al vertice Ue ha detto che se crolla la Tunisia l’Italia deve aspettarsi l’arrivo anche di 900 mila persone e ha aggiunto che si impegnerà affinché il Paese accetti le condizioni del prestito del Fondo Monetario Internazionale, cioè due miliardi - ora sospesi a data da destinarsi - a fronte di cambiamenti radicali, riduzione del deficit in un Paese in cui il debito pubblico ha raggiunto l’83 per cento del Pil a fine 2020 e l’89 per cento a fine 2022.
La crisi ha certamente a che fare con il costante peggioramento dell’economia di cui, poche settimane fa, gli analisti de lavoce.info sintetizzavano i numeri: il tasso di disoccupazione totale al 17.5 per cento, più acuta nei giovani. La percentuale dei giovani che lavorano nel settore informale, senza protezione sociale, è passata dal 33% nel 2013 al 42%nel 2019. Crisi di questa portata vengono spesso contrastate con l’aumento della spesa pubblica, e così è stato anche in Tunisia, dove negli ultimi anni è aumentato l’aiuto alle famiglie, sono aumentati i sussidi e i dipendenti pubblici (la massa salariale pubblica - come riporta lavoce.info - ha raggiunto il 15 per cento del Pil nel 2019 dall’11 per cento nel 2010). Esattamente gli ambiti in cui il Fondo Monetario chiede tagli draconiani.
La stima di 900 mila persone della premier Meloni è probabilmente eccessiva ma i dati parlano chiaro: per un numero crescente di tunisini la situazione non è più tollerabile. Per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, la soluzione è quella di sempre: è necessario, ribadisce, bloccare le partenze. Per questo ha annunciato una visita a Tunisi a fine aprile. L’auspicio è trovare interlocutori, stringere accordi, cioè come d’abitudine di tutti gli ultimi governi, indirizzare soldi in cambio del pattugliamento delle coste.
Il punto da cui ripartire per capire cosa stia davvero accadendo in Tunisia è proprio questo: l’Europa, convocata giustamente, a trovare una comune politica per la gestione di un fenomeno destinato a mutamento come il flusso migratorio, conosce davvero i suoi interlocutori, conosce l’agenda delle istituzioni che finanzia?
Il caso tunisino è un caso di scuola. Negli ultimi anni, a fronte della ripetuta erosione dei diritti civili, l’Europa ha taciuto continuando a finanziare governi che - anche in virtù dell’assenza di sanzioni - inasprivano misure repressive.
È dallo stato dei diritti in Tunisia che bisogna riavvolgere, dunque, il nastro, per giudicare l’efficacia degli accordi che l’Europa tutta e l’Italia in particolare, hanno stretto finora, perché i numeri degli arrivi da Sfax, da Zarzis e da altri porti nel Sud del Paese non hanno solo a che fare con l’aggravarsi delle condizioni economiche, ma molto con la deriva autoritaria impressa dal capo di Stato Kais Saied e con il progressivo ridursi degli spazi di dissenso.
Il deterioramento dei diritti umani
Nell’ultimo mese e mezzo le tensioni in Tunisia sono aumentate rapidamente.
L’undici febbraio, Kais Saied ha preso di mira gli oppositori, ordinando l’arresto di almeno dodici oppositori tra cui sindacalisti, giornalisti, avvocati, giudici e un imprenditore. Secondo quanto riferito dalle organizzazioni umanitarie locali sarebbero una dozzina gli altri attivisti prelevati dalle loro case e trasferiti con la forza in strutture carcerarie e detenuti senza accuse e senza la possibilità di vedere i loro avvocati. Per arginare l’ondata di proteste seguita agli arresti, Saied ha spostato l’attenzione su un «nemico» che riteneva più semplice e contro il quale riteneva - i fatti gli hanno dato ragione, purtroppo - di raccogliere il consenso dell’opinione pubblica. Alla fine del mese scorso, la Guardia nazionale tunisina ha annunciato che più di 100 migranti erano stati arrestati per aver attraversato illegalmente il confine e Saied, parlando alla nazione, ha chiesto «un’azione urgente» per fermare il flusso di migranti in Tunisia lanciando accuse complottiste di «un accordo criminale... per alterare la struttura demografica della Tunisia». Da allora le comunità di migranti sono state prese d’assalto, donne e uomini picchiati, cacciati dalle loro abitazioni, costretti in strada. Molti di loro, nell’impossibilità di essere aiutati dalle organizzazioni umanitarie e dalle agenzie delle Nazioni Unite, e di fronte all’inazione delle ambasciate e dei consolati dei Paesi di origine non hanno altra scelta: provare a fuggire attraversando il Mediterraneo Centrale. Con qualsiasi mezzo, qualsiasi meteo, a qualsiasi prezzo.
La posizione di Kais Saied sui migranti segue le teorie sempre più diffuse e proposte in Tunisia dal Partito Nazionalista. Il cuore della propaganda razzista e suprematista del movimento è che le fatiscenti condizioni economiche e sociali dipendano dai «nemici»: migranti e partito islamista Ennahda. Il cuore della soluzione che propongono è deportare «migranti irregolari» e «qualsiasi immigrato dall’Africa sub-sahariana che ha commesso un crimine in Tunisia o disturbato l’ordine pubblico».
La concatenazione allarmante di eventi è solo l’ultima tappa di una tendenza repressiva che precede la presidenza di Saied ma che sotto il suo mandato si è aggravata.
Prima la sospensione del Parlamento, poi il suo scioglimento, poi le misure contro la libertà d’espressione. Nell’estate del 2021 Saied ha decretato che chi avesse utilizzato reti di comunicazione e informazione come Internet per diffondere «false informazioni e voci» sarebbe stato soggetto a punizione, sancendo una limitazione della libertà di parola. Aumentava, parallelamente, la violenza della polizia: arresti sistematici di attivisti, leader Lgbtq+, nel duplice tentativo di arginare il dissenso e strizzare l’occhio al suo elettorato conservatore.
Inoltre, almeno dal luglio 2021, i detenuti possono essere trattenuti senza accesso all’assistenza legale, i civili sono stati processati in tribunali militari e numerosi oppositori politici sono stati sottoposti agli arresti domiciliari.
Mentre i diritti civili venivano consumati, uno ad uno, la comunità internazionale è rimasta per lo più in silenzio.
I diritti delle donne
Non va meglio per i diritti delle donne. Come nota Ikram Ben Said, attivista tunisina, fondatrice di Aswat Nisaa, un’organizzazione che si concentra sulla partecipazione politica delle donne, la Tunisia aveva una delle leggi più progressiste al mondo in materia di partecipazione politica delle donne, dopo che la legge elettorale del 2011 aveva imposto il partito di genere nelle liste elettorali. Scrive Ben Said su Carnegie Endowment for International Peace che la legge rifletteva «l’impegno dello Stato a raggiungere l’uguaglianza di genere e la trasformazione sociale attraverso l’equa rappresentanza degli interessi delle donne». La Costituzione voluta da Kais Saied nel 2022, e la rimozione della parità di genere durante l’ultima tornata elettorale, hanno fatto precipitare il numero di donne in Parlamento. Solo il 16% rispetto al 31% delle elezioni del 2014. Significa che rispetto a dieci anni fa, oggi, nel Parlamento dell’uomo che si era presentato nel 2019 fa come riformatore, come l’unico in grado di garantire la stabilità del Paese, siedono metà delle donne. E metà delle donne significa metà delle possibilità di influenzare l’agenda politica.
Ikram Ben Said riannoda il nastro, tornando alla campagna elettorale di Saied. Era tutto già visibile, a volerlo vedere. La campagna elettorale di quattro anni fa, infatti, si poggiava su una piattaforma conservatrice. Saied era stato molto chiaro: nessuna modifica alla legge sull’eredità tunisina che concede alle donne metà di quanto spetta ai loro fratelli. Poi una volta eletto, nel 2020, aveva affermato che la questione della disuguaglianza nell’eredità era già risolta chiaramente nel Corano. Per tamponare la frattura con le opposizioni o forse per sembrare meno reazionario ai suoi alleati sull’altra sponda del Mediterraneo, Kais Saied, l’anno dopo ha nominato Najla Bouden capo del governo. La prima donna a ricoprire quel ruolo nel Paese ma non per questo affrancata dalle posizioni del presidente, anzi. È stata proprio Bouden ha abrogare la Circolare n. 20 cioè quella che garantiva la parità di genere nelle nomine dei funzionari governativi.
Solo colpa di Saied?
Anche prima della presidenza Saied le violazioni dei diritti umani erano pane quotidiano in Tunisia, erano i tempi del regime di Zine El Abidine Ben Ali e la limitazione sistematica delle libertà civili in nome della sicurezza erano prassi. Poi c’è stata la rivoluzione del 2011 che ha avviato il Paese sulla strada della democratizzazione, alcuni passi erano stati fatti e significativi ma tutti i governi hanno faticato (leggasi fallito) nel rinnovare le forze di sicurezza. Nessun governo ha attuato riforme adeguate sul sistema giudiziario contribuendo a violazioni sistematiche dei diritti umani.
Per anni gli abusi della polizia, la loro impunità, hanno alimentato il malcontento e la marginalizzazione della popolazione, così quando nel 2019 Kais Saied si è proposto come riformatore, come giurista in grado di cambiare, finalmente, una situazione stagnante, il consenso è stato ampio. Ci ha messo poco più di un anno, a rivelare che i contorni della sua proposta politica fossero autoritari, dall’altra parte una società civile fiaccata da anni di politiche che avevano favorito le fratture sociali anziché sanarle, impedendo un confronto costruttivo e favorendo il terreno per l’ascesa di un capo di stato illiberale e antidemocratico.
E ora l’Europa?
Fatte queste premesse, è sulla base di questi eventi, che l’Europa dovrebbe interrogarsi prima delle visite di Stato, e in vista degli incontri bilaterali per risolvere questioni cruciali come la gestione dei flussi migratori.
Il punto non è più solo se stringere o meno accordi con Paesi di transito, che natura abbiano questi accordi, i punti sono due. Il primo: siamo sicuri di conoscere chi siano i nostri interlocutori, quale sia l’agenda che li muove? Il secondo: abbiamo analizzato le conseguenze dei nostri accordi precedenti, per poter prevedere così i potenziali effetti degli accordi che ci apprestiamo a stringere oggi?
L’agenda che dovrebbe muovere l’Europa dovrebbe essere, innanzitutto, quella di ripristinare un equilibrio sociale ed economico.
Vanno prima promosse le libertà civili, rafforzate le istituzioni democratiche e poi e solo poi, stretti accordi con Paesi partner. Il rischio è, come dimostrato da tutti gli ultimi accordi, memorandum, negli ultimi anni, che i soldi destinati ai Paesi di transito finiscono per favorire regimi illiberali che si presentano come gli unici in grado di gestire crisi e mantenere l’ordine.
La priorità europea in termini di sicurezza ha schiacciato l’interesse verso le condizioni delle persone migranti e gli abusi sistematici sulla società civile in Tunisia. La preoccupazione per i diritti umani è stata controbilanciata dal desiderio di frenare gli arrivi, di sbloccare le partenze, primo comandamento di ogni governo italiano da dieci anni a questa parte.
La strategia ha fallito. Lo dicono i numeri. Affidarsi a leader autoritari non funziona. È arrivata - e per i morti in mare è troppo tardi - l’ora di un approccio nuovo.