il Giornale, 27 marzo 2023
Intervista a Antonio Pileggi
A Milano lo chiamano l’«elettro-sacerdote» perché dieci anni fa ha inventato «Inner_Spaces», oggi famosa rassegna di musica elettronica, tra le più avanzate in Italia. Ma, dietro a questa etichetta, palesemente un po’ scherzosa, c’è una vicenda di peso, tutta da raccontare. La storia di padre Antonio Pileggi, 56 anni, calabrese, ordine dei gesuiti, da giovane partito come pianista e compositore impegnato.
Sotto la sua direzione artistica, stasera, nella Chiesa di San Fedele, a Milano, verrà proposta la drammatizzazione musicale «Dolore di Dio, storia dell’uomo». Per le esecuzioni ci sarà uno dei migliori ensemble di barocca, Il Canto di Orfeo, che suonerà la musica delle Passioni di Bach; e le note sacre di Liszt, con la presenza anche della musica elettronica appunto, sotto l’altare, per la «Via Crucis» con i testi del Cardinal Carlo Maria Martini. Già, proprio così: fino a prova contraria, sarebbe la prima volta. Dopo i cori sacri, l’organo e la chitarra (non poche volte «discussa» come prima forma di deriva giovanilistica in chiesa) ecco arrivare, in un tempio cristiano, i suoni del futuro.
Padre Pileggi, che succede: la musica elettronica in chiesa, sarebbe la prima volta, c’è una tradizione da rispettare o no?
«Segno dei tempi, noi ci rivolgiamo all’uomo di oggi. Nell’evento ci sono i testi che il cardinale Martini scrisse per noi prima di morire; poi i capisaldi della tradizione verranno rievocati e rispettati in un modo sostanziale, attraverso brani del repertorio».
Quindi?
«Ci sarà l’utilizzo della chitarra elettrica, suonata da Francesco Zago, non certo alla Jimi Hendrix, ma come voce della rassegna sperimentale Inner_Spaces che proponiamo nel nostro Auditorium. Sarà, semplicemente, una rilettura dei brani della Via Crucis di Listz e una integrazione fra elementi, linguaggi e strumenti diversi».
Come è arrivato a occuparsi di queste cose?
«La musica elettronica l’ho incontrata durante i miei studi musicali. Ascoltavo alcune cose del rock progressivo, da Frank Zappa ai Pink Floyd. Ma è stato proprio arrivando a Milano che mi sono reso conto quanto interessava al pubblico quel genere. Da qui anche l’idea della rassegna».
Una rassegna futuristica fondata da un gesuita, «Inner_Spaces», per la quale ormai si fa anche la fila per entrare...
«La buona riuscita è dipesa da diversi elementi, come la continuità e la chiarezza del progetto, l’epifania dell’ascolto come esperienza e non come intrattenimento, non da club, a partire da generi musicali come l’ambient. Il tutto proposto in uno spazio che permette momenti immersivi».
Il mondo dei suoni avveniristici può avvicinare a Dio?
«In alcuni casi può predisporre a un ascolto attento, a lasciare se stessi, il proprio io, per affidarsi a qualcosa d’altro, e questo può essere vicino alla dimensione della contemplazione».
Teorie affascinanti, come hanno reagito ai «piani alti» del suo Ordine? Da chi non è addentro la Chiesa, a volte, è ancora vista come un qualcosa di antico e immutabile...
«Il centro San Fedele fin dagli anni 50’-60’ del Novecento è stato ed è un laboratorio di incontri con i personaggi del momento, nei più diversi settori. L’inizio di questo, gli anni di padre Favaro, che aveva contatti con artisti come Lucio Fontana, suo amico, e il padre della Pop Art Andy Warhol. Venivano pure Federico Fellini e Marcello Mastroianni. Nel Dopoguerra, dal cardinale Schuster i gesuiti ebbero la missione di ricucire una società lacerata attraverso l’incontro, il dialogo».
E poi arriva lei che porta la musica da musicista...
«Ho studiato pianoforte nella mia città, Reggio Calabria, la Scuola del maestro Vitale, la stessa seguita da Muti. Mi sono diplomato in Composizione a Parigi, ho fatto corsi all’Ircam. Il campo in cui mi collocavo era quello della musica strumentale. Ho avuto diverse esecuzioni dall’ensemble fondata dal compositore Pierre Boulez».
A un certo punto c’è il suo incontro con la fede.
«Ero in Francia, non credente, ma non ateo militante, come poteva essere il comunista osservante, ai tempi dell’ateismo di Stato della serie la religione è l’oppio dei popoli. Il mio riferimento era la filosofia dei Lumi. Intorno ai 28 anni, senza sapere perché, mi sono trovato ad andare in chiesa, sospinto da qualcosa, giorno dopo giorno, fino all’incontro con Cristo che mi ha cambiato la vita, con il mio ingresso poi nell’Ordine dei Gesuiti».
Arrivato al Centro San Fedele di Milano?
«Ho recuperato il mio passato. Sono stato io a riportare la musica, un certo tipo di musica al San Fedele che prima era sporadica, con piccole rassegne. Ho messo al servizio la mia esperienza integrando il tutto a un progetto già esistente. Ovvero, la scommessa di entrare in contatto con l’uomo moderno, dei nostri giorni, partendo da quello che vive e che ascolta e che magari desidera conoscere».
Così ha convinto tutti che andava fatta anche una «rivoluzione tecnologica», o no?
«In effetti, da tempo, il nostro Auditorium è dotato di uno dei più potenti diffusori sonori d’Europa; fatto di diverse casse, si chiama Acusmonium; così, in questa versione fissa nella sala, è difficilissimo trovarlo. So che ce ne è un altro a Bari. Uno strumento utile a vivere l’esperienza immersiva del suono, che ci può circondare totalmente, toccare fisicamente».
La sua rassegna è seguita anche da vip?
«Abbiamo avuto diversi ospiti d’onore, mi viene in mente per esempio Franco Mussida, ex chitarrista della Pfm. Nel pubblico, mi dicono, si è visto il conduttore tv Costantino Della Gherardesca, che è cultore di musica d’avanguardia».
Si riesce a fare un identikit del pubblico che frequenta le serate elettroniche?
«A parte il nocciolo duro, che possiamo immaginare intorno al 30%, c’è il pubblico trasversale, gli altri possono cambiare a seconda della proposta. Le persone arrivano da tutt’Italia, a sentire. A volte ci sono autori che fanno parte del mondo Dark oppure Punk. I musicisti ambient attirano altri ancora, giovani e non. Gli over ’70 sono abbastanza presenti. Ci sono live dove sono presenti ascoltatori dei centri sociali; poi gli universitari e gli studenti specializzati in musica e immagini».
Insomma musica e spiritualità: un binomio che va forte.
«Un incontro che è probabilmente possibile. Ci sono diverse dimensioni del sentire, quella del sottofondo, nella quale l’attenzione è episodica. Da noi è un’altra cosa, come dicevo si fa l’esperienza dell’ascolto, che mi fa uscire da me e che mi conduce altrove. E qui si può fare un’esperienza di tipo spirituale».
E magari Dio apprezza pure la musica elettronica... (ride divertito padre Pileggi ma invita alla prudenza).
«Dio ama l’uomo, Dio è contento che l’uomo utilizzi i doni che ci vengono da lui, per crescere, trarne gioia. La musica elettronica è un fatto integrativo, una espressione interessante, figlia delle nostre tecniche e creatività contemporanee».
Insomma, i gesuiti si confermano pionieri, missionari moderni, all’avanguardia, come si dice, «intellettuali della Chiesa».
«Queste sono formule. Ci sono domenicani e francescani che possono essere pure loro alle frontiere, ci sono i preti diocesani e altri ancora. Certamente però c’è questa nostra reputazione, una storia che attribuisce ai gesuiti una certa opera».
Papa Francesco fa parte dell’Ordine, lo ha conosciuto?
«Lui è venuto a Milano, nel carcere di San Vittore, dove io vado regolarmente a incontrare i detenuti. C’è stato quel momento. So che gli piace molto la musica popolare argentina. Ha difeso una messa creola legata alla tradizione liturgica dell’America Latina».
Chiudiamo con i ricordi di gioventù: da ragazzo, prima di diventare gesuita, che cosa faceva, la sua famiglia...
«Mio padre si chiamava Ilario, appassionato di musica che, appena ha potuto, mi ha iscritto al Conservatorio, ai corsi di pianoforte. Mia mamma si chiamava Francesca; poi c’era il nonno clarinettista».
Come è stata presa la sua scelta di lasciare la carriera musicale per la strada della fede?
«Negli ambienti musicali ci fu una certa sorpresa, da parte di molti, a Parigi, ma al tempo stesso grande rispetto. I miei genitori da credenti approvarono, soprattutto mia madre. In generale la mia scelta venne vista come di valore».