Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  marzo 27 Lunedì calendario

Intervista a Darren Cahill

Lo chiamano Killer. «Anche mia moglie, gli amici. Nessuno mi chiama Darren. Me lo hanno affibbiato da piccolo, ma va bene e sono felice così». In carriera ha vinto due titoli ed è arrivato in semifinale agli Us Open nel 1988. Ma soprattutto vanta una grande carriera da coach, e si spera che continui: Darren Cahill, australiano di Adelaide, classe ‘65, è il coach (con Simone Vagnozzi) di Jannik Sinner.
Cahill, ricorda quel suo torneo di New York del 1988?
«Come fosse ieri. Come puoi dimenticare uno dei momenti salienti della tua carriera. Ho battuto anche Boris Becker: in quel torneo “vedevo” la palla».
Però non ha poi brillato...
«Ero decente, ma non un grande giocatore. In una buona giornata davo fastidio, ma essere un grande giocatore è diverso: io esponevo troppo le mie debolezze».
Ma è stato un signor doppista.
«Il mio marchio di fabbrica: non ho mai perso in Coppa Davis, che è stata un punto culminante per la mia carriera. So che è un torneo importante anche per gli italiani e vale anche per Jannik: è un grande onore giocare per il tuo Paese».
Come è iniziata la sua carriera di coach?
«Fortuna e porte scorrevoli: una si chiude, un’altra si apre. Ho finito giovane, per problemi al ginocchio.
Avevo 25 anni. Tornato ad Adelaide, la mia città, incontrai un ragazzino di circa 12 anni: Lleyton Hewitt. Aveva già il suo coach, Peter Smith. Quindi il mio lavoro fu più di strategia: come giocare, il tipo di colpo, quale parte del campo, l’individuazione dei punti deboli dell’avversario».
È questo il suo segreto?
«Se non sei un tennista talentuoso devi essere in grado di vedere il gioco: è quello che faccio, cerco modi per battere i migliori. Ci sono ex giocatori che non erano campioni ma poi si rivelano coach bravi. Perché? Fanno ciò che hanno fatto per tutta la loro carriera: vedere il gioco diversamente dai campioni».
Quindi gli ex campioni non sono bravi allenatori?
«Tutt’altro: sono stati in quelle posizioni, in quei momenti, sanno parlare e connettersi con i giocatori.
E sanno come mettere una palla in un punto del campo impossibile per i comuni mortali: una differenza c’è».
Jannik dice che lei prima del match sa trovare le parole magiche.
«A volte il giocatore ha bisogno di informazioni, oppure di un discorso ispiratore, o di qualche chiarimento.
Altre va lasciato in pace, o gli va datoun abbraccio. Dipende dalla situazione: per tenere la convinzione i tennisti hanno bisogno di tutto ciò, a questo servono gli allenatori».
E qual è la sua parola magica?
«La sto ancora cercando: importante per un vero allenatore è aiutare il giocatore a trasformare le situazioni perdenti in vincenti. Statisticamentese ci riesci 4/5 volte in un anno il tennista potrà fare qualcosa di importante nei grandi tornei».
Torniamo indietro: dopo Hewitt ha allenato un certo Agassi.
«Andre aveva 32 anni, era già una leggenda. Non sapevo se avrebbe giocato sei settimane, sei mesi o sei anni. Alla fine ha giocato per cinquestagioni a un livello molto alto. Per me è stata una grande lezione di coaching: mai visto uno che volesse così tante informazioni. Richieste sugli avversari, analisi e domande tipo “se colpisco la palla così, con questo tipo di giocatore e in questa posizione in campo quale sarà la risposta?”. Con Andre dovevi davverofare i compiti: mi ha reso un allenatore migliore».
Poi l’esperienza femminile.
«Simona Halep. Con lei ho vissuto i migliori momenti della carriera, la gioia più alta: è una persona straordinaria, a volte era lei la sua peggior nemica. Ma che pressione aveva, con tutta la Romania che si aspettava diventasse la numero 1».
E siamo al presente, in Italia.
«Beh, conosco bene Riccardo Piatti, mi aveva parlato molte volte di Jannik. Ci eravamo incrociati un paio di volte, il tennis è come una famiglia e la tua reputazione gira, quindi: se, come Jannik, sei una brava persona e hai buoni valori, la gente ti conosce prima di vederti. Sapevo che viene da una grande famiglia, che ha i piedi per terra, che lavora duramente, che è motivato, rispetta le persone, tutte cose per cui è attraente lavorare con lui. La cosa più importante per me è il carattere di un giocatore».
Però lei è da solo in un gruppo tutto italiano...
«La “mafia” italiana (ride). Scherzo, quella è la ciliegina: è fantastico lavorare con Simone Vagnozzi, bravissimo sulla tecnica, e poi Umberto Ferrara e Giacomo Naldi».
Quindi si possono avere due coach?
«Sì, lavorare insieme è possibile se sei in una squadra in cui ci si scambiano informazioni. Vogliamo far evolvere Jannik come tennista. Io, in generale, devo assicurarmi che stiamo guidando la nave nella giusta direzione. L’esperienza mi ha insegnato come trasmettere il giusto messaggio ai giocatori: non puoi fare con tutti le stesse cose».
Su cosa deve migliorare Sinner?
«Prima del mio arrivo era già un grande giocatore, già top ten: ha armi incredibili, era ben allenato. Ora vanno guardate le sue partite contro i migliori e capire cosa lo trattiene dal batterli. E lavorarci. Ma c’è bisogno di tempo, di un paio d’anni e di molte situazioni di partita. Può migliorare il servizio, il gioco di transizione, essere dominante da fondo campo. Ma la cosa più importante, quando alleni i grandi giocatori, è continuare a migliorare i loro punti di forza. Ad esempio Jannik si muove incredibilmente bene, quindi spendiamo tanto tempo su questo. È grandioso che sia così disposto a provare cose nuove e a cercare di migliorare, purché non ci si allontani troppo dal tipo di giocatore che è».
Ma una previsione è possibile?
«Ci vuole fortuna, no? Essere nel posto giusto al momento giusto... io penso sia in arrivo un bel successo: i risultati arrivano perché i campioni non lo sono solo della mente, ma anche nel cuore».