la Repubblica, 27 marzo 2023
L’allarme dei trappisti: birra a rischio
Da due secoli i monaci trappisti delle Fiandre, nel Belgio settentrionale, producono una birra di alta qualità, considerata una primizia non soltanto nel loro Paese ma esportata con successo anche in Olanda, in Gran Bretagna, in Francia e in Italia. La crisi delle vocazioni, con sempre meno giovani disposti ad affrontare i sacrifici di una vita monastica, sta tuttavia mettendo in crisi questa nicchia ben nota agli intenditori. Uno stabilimento, che produceva la Achel, è stato ceduto nel 2021 a imprenditori privati, ma così facendo ha perso il diritto di fregiarsi del titolo di “birra trappista”, una specie di marchio di garanzia. Adesso in tutto il Belgio sopravvivono soltanto cinque monasteri produttori di birra, il più vecchio dei quali, Westmalle, guarda con crescente preoccupazione al futuro a causa del sempre più piccolo numero di frati a cui affidare il delicato incarico.
«La società di oggi offre scarse motivazioni a chi vuole diventare un monaco», dice padre Benedetto, priore dell’abbazia di Westmalle, all’ Observer di Londra, che dà l’allarme da uno dei Paesi più forti consumatori di birra. «La vita religiosa non viene più considerata significativa, è vista come misteriosa, con una connotazione negativa. Anche se è molto più affascinante di quanto si possa sospettare». È innegabile che sia una scelta rigorosa: i monaci si svegliano ogni mattina alle 3:45 per una giornata contrassegnata da pregheria, lavoro, eucarestia, pasti in comune e poco tempo libero. Alle 8 di sera vanno a dormire. «Fra dieci o vent’anni, ho scarsa fiducia che avremo abbastanza monaci per fare funzionare il birrificio», afferma Philippe Van Assche, direttore commerciale laico dell’iniziativa.
L’International Trappist Association esige che, per portare scritto sull’etichetta “autentico prodotto trappista”, la birra deve essere prodotta all’interno di un’abbazia, sotto la supervisione di monaci (o eventualmente di suore), con tutti i profitti destinati al mantenimento della comunità religiosa, all’ordine dei monaci trappisti o a associazioni di beneficenza. È ammesso un certo numero di lavoratori laici, come il direttore del marketing a Westmalle, ma la presenza dei frati non può essere secondaria. Ed è proprio il principio irrinunciabile del “no profit” a dare un’aura particolare alla birra trappista: i monaci non la producono per arricchimento personale, ma soltanto per passione, in omaggio a un classico “ora et labora”, prega e lavora, il motto della tradizione benedettina a cui appartengono i trappisti, la cui denominazione ufficiale è cistercensi della stretta osservanza, ordine monastico che risale al 1664.
Come ovviare alla crisi delle vocazioni? Una possibilità è fare più affidamento sui frati dei monasteri trappisti in Africa, Asia e America del Sud, dove l’ordine è in crescita anziché in declino, come avviene con rare eccezioni in tutta Europa. «È perfettamente ammissibile che monaci trappisti di altre parti del mondo si trasferiscano in Belgio, facendone diventare le abbazie trappiste più multiculturali e tenendo in vita i birrifici al loro interno», osserva Sofie Vanrafelghem, unaesperta di birra belga. Forse è l’unico mezzo per non perdere questa tradizione. Altrimenti, uno ad uno, i monasteri trappisti del Belgio saranno costretti a chiudere o a cedere l’attività a imprese laiche che mirano a guadagnarci dei soldi: ma in tal caso perderebbero l’etichetta di “birra trappista”. Di quella deliziosa bevanda, a differenza della proverbiale rosa del romanzo di Umberto Eco ambientato in un convento, non resterebbe nemmeno il nome.