il Giornale, 26 marzo 2023
Lo schwa e l’Accademia della Crusca
L’Accademia della Crusca ha dato una risposta formale a un «quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari», che era stato posto dal Comitato pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione. E, in questa risposta, si dice di «evitare le reduplicazioni retoriche» (per esempio: cittadini e cittadine) e che l’«uso dell’articolo con i cognomi di donne» va omesso; si parla di «esclusione dei segni eterodossi» (come l’asterisco e lo schwa) e di «conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre». Talmente chiaro, che ne è subito nata una serie di polemiche, per tutta la settimana. «Ormai ci sono abituato...» dice il presidente della Crusca Claudio Marazzini. Nato a Torino nel 1949, oggi Professore emerito di Storia della lingua italiana all’Università del Piemonte orientale, a fine aprile lascerà la carica che ricopre dal 2014. Professor Marazzini, qual è la vostra posizione? «Massima apertura per quanto riguarda i nomi di cariche e professioni femminili; minore apertura, o freno, su una serie di elementi di contorno e che includono altre scelte, come l’asterisco, lo schwa o la reduplicazione retorica dei due generi». Perché citate Alma Sabatini? «È stata la prima a portare in Italia questi argomenti, durante il governo Craxi. È il punto di partenza di tutte le rivendicazioni linguistiche di genere e, se la si rilegge, non si trova un orizzonte concettuale molto diverso da ciò di cui si discute oggi: in questo dibattito si ripetono le stesse cose». Aprite a un largo uso di titoli femminili. «Abbiamo spinto abbastanza, ma dovevamo scegliere una linea: non si può avere un contenzioso su ogni parola. Ma questa apertura non turba le condizioni della lingua. Quello che le turba è se introduci segni che non esistono, come l’asterisco o lo schwa». Perché? «Perché questo rompe tutto, nella lingua. Quando arrivo a un asterisco, che significa? Se scrivo amic* come lo devo leggere? Non lo puoi più leggere; oppure, ciascuno lo può leggere come vuole... Rompe un rapporto, che in italiano è molto stabile, tra grafia e pronuncia, tra lingua scritta e parlata: l’aggressione alla lingua è forte, non è la creazione di una parola al femminile, è un rovesciamento delle regole dell’italiano». Lo schwa è uguale? «È anche peggio. Addirittura introduce un suono che non esiste in italiano, se non in alcuni dialetti: imporrebbe una pronuncia diversa dell’italiano, che è molto. Troppo. Le sentenze non sono luoghi per esperimenti...». Altrove invece sono accettabili? «Per noi è no sempre. E, a maggior ragione, in una lingua ad alto livello formale e ben controllata. Lo vedo un consiglio di buon senso, non vedo chi si possa opporre». Beh, molti si sono opposti. «Sì, certo. Ciascuno è libero di usare la lingua come vuole, specialmente nella vita privata; ma non si può arrivare a forzare la normalità, cercando di imporre agli altri questi segni. Il ricatto di chi vuole asterisco e schwa è: se non lo fai, significa che sei vecchio, che sei un reazionario. C’è chi ha scritto che la Crusca è vecchia...». In effetti ha 440 anni. «Per una istituzione è un pregio. La lingua stessa è vecchia: le lingue attraversano i secoli, per essere quello che sono. Non è che ti svegli con un ghiribizzo e cancelli secoli di tradizione: esiste il consenso collettivo della lingua, che va rispettato. Ti svegli e cambi le concordanze?». Parliamo di generi? «L’italiano, come lingua romanza, ha una morfologia ricchissima per i casi, a differenza dell’inglese. E ora c’è qualcuno che va credendo e spiegando che l’inglese sia più avanzato, perché non distingue i generi... La raffinatezza morfologica dell’italiano è vista come un difetto. È follia. Sono esperimenti che vanno al di là di un confine da non superare». Perché lo fanno? «Questi tentativi nascondono un atteggiamento autoritario, spesso camuffato da disponibilità: proviamo... Ma il sottinteso è che, se non lo fai, sei vecchio e reazionario». Autoritario perché, più che la grammatica, c’è l’ideologia? «Ci sono state altre polemiche in passato contro la Crusca, per esempio quando ho difeso Giorgia Meloni che aveva scelto il presidente del Consiglio al posto di la. Io ho detto: è suo diritto. Segue una tradizione dell’italiano, che è il maschile non marcato: ovvero la forma usuale, ed è maschile, ma può anche non esserlo nella realtà; come nella Costituzione, quando si parla di diritti del cittadino». Risultato? «Se si trascinasse questa opera di manipolazione fino a dire che il maschile non marcato non debba più esistere perché è antifemminista o patriarcale, e si immagina che alla forma maschile corrisponda solo un sostantivo maschile, allora bisognerebbe riscrivere tutti i documenti e le leggi dello Stato». Quindi non è solo grammatica? «Le femministe accusano chi usa il maschile non marcato di violare la grammatica, ma non è vero: è una scelta ideologica, legittima, di chi si riconosce in certe rivendicazioni o di chi, invece, opta per una soluzione più tradizionale». Imponendo una forma nella lingua, imponi un modo di pensare e percepire la realtà? «Nel documento citiamo il neuroscienziato Andrea Moro: secondo i suoi studi è esagerato ritenere la lingua un filtro che non ci permetta di vedere la realtà». Però la si vuole manipolare. «Certo. E soprattutto l’idea è: se riesco a cambiare la lingua, ti obbligo a essere diverso. C’è una funzione educativa e coercitiva, come nella cultura della cancellazione. Qui a Torino pare vogliano cambiare la toponomastica legata all’esperienza coloniale italiana... Boh, che vuole che le dica? Così significa che l’Italia non abbia avuto le colonie?». Quindi? «L’unica cosa è rileggere Orwell, che ha già descritto tutto. Non credo che sia un atteggiamento linguisticamente democratico». Nel documento si parla della lingua «edenica e immacolata» pretesa dal politicamente corretto. «Non è il nostro consiglio... A scuola ci sono bambini che hanno paura a scrivere vecchio e non sanno come chiamare un uomo col bastone. Avere paura delle parole che esprimono cose normali, che nella vita esistono... Quelle di chi sogna una lingua ripulita da quello che non mi piace sono posizioni pericolose». Nel documento, soprattutto nella premessa, che non è stata molto diffusa dai media, lanciate un allarme in questo senso? «La parte iniziale ha una sua profondità, e ne sono fiero. Pur riconoscendo una variabilità della lingua, anche sotto le spinte delle rivendicazioni femministe da Sabatini in poi, diciamo che produrre cambiamenti nella lingua non significa diventarne padroni: la lingua non è una proprietà individuale, neanche della Crusca». Altro? «Detto ciò, le spinte per le innovazioni linguistiche di genere, anche se di scarsissimo significato culturale, sono spinte internazionali, ci piaccia o no. Non si possono sottovalutare. Poi la lingua è nelle mani dei popoli, quindi vedremo che cosa succederà: buona parte delle persone è estranea a queste discussioni». L’aspetto che chiamate «minoritario» di queste rivendicazioni? «Sa, quando una cosa è portata avanti dalle élite culturali... Non trova l’uso dello schwa fra gli operai, ma all’università e fra i giornalisti...», Perché il no alla reduplicazione? «Ormai è di uso larghissimo, ma è un espediente retorico. A volte ti porta perfino nel comico. E, nel linguaggio giudiziario, va contro la spinta alla brevità. È una scelta legata al contesto, allo stile e alla situazione comunicativa: è il bello della lingua, la sua libertà, del resto. La lingua non sono manette che metti e non togli più». Perché scrivete che togliere l’articolo al cognome femminile ha poco fondamento? «Non è davvero discriminatorio, ma così ormai è avvertito. Come la parola negro, che nella tradizione letteraria italiana non è mai stata offensiva, ma ormai è etimologicamente bruciata. A volte le parole possono essere incolpate di colpe che non hanno. E così, visto che l’articolo è stato abolito di fatto, allora aboliamolo». Questo approccio porta al conformismo? «Naturalmente. Un principio autoritario e livellatore produce sempre conformismo: se mi adeguo, spero di passare inosservato. Oltretutto, chi irrigidisce queste norme poi deve fare i conti con la coerenza, che è difficile da mantenere...» Ma questo documento è stato un po’ una provocazione? «Sapevamo che, toccando questi argomenti, si sarebbe sollevato un vespaio. Del resto non è la prima volta: sono presidente dell’Accademia da nove anni, e a fine aprile lascio... Il fatto che si parli della Crusca fa parte della sua popolarità».