Domenicale, 26 marzo 2023
La storia del Made in Italy
«Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani». Fu Massimo D’Azeglio, all’indomani dell’Unità, a porre per primo il problema di un’identità nazionale, cui Alessandro Manzoni aveva fornito il supporto di una lingua per tutti, ma che aveva bisogno di simboli tangibili per prendere corpo nell’immaginario collettivo. Bisognava dunque mobilitare tutti quegli strumenti utili a cementare una coscienza collettiva di appartenenza, cui sempre ricorrono gli Stati nei momenti di crisi o in quelli di fondazione: «inventare» tradizioni, individuare santi ed eroi di un’epopea di riscatto, definire monumenti condivisibili, istituire festività nazionali, «educare» insomma il popolo a riconoscersi in un insieme organico, in uno stile di vita, in un costume «esportabile» anche all’estero come segno di inequivocabile identità.
Nasceva insomma – questa è la tesi originale del recente libro di Elena Dellapiana – il tema del Made in Italy, di cui si ricostruisce la preistoria in una prospettiva di lunga durata che consente utili riflessioni oggi che esso è divenuto un brand globale di indiscusso successo, ma a continuo rischio di caduta in un cliché commerciale.
Avviata inizialmente come rivendicazione di uno storico primato artistico, la narrativa dell’italianità si estese, in corrispondenza ai progressi dell’industria, a una miriade di prodotti – mobili e oggetti d’arredo, ma anche abiti e tessuti, artigianato, e poi automobili e scooter, cinema, cibo – capaci di veicolare valori estetici ritenuti espressioni dell’Italian way of life, di quella insomma che, après Fellini, si chiama ancor oggi la «Dolce vita».
Un’identità fatta di coriandoli luminosi, di frammenti mirabolanti assunti al ruolo di icone di una italianità pervasiva, dalle punte della cultura alta alla quotidianità dell’oggetto d’uso, cioè del design.
Nel 1860, molto scalpore suscitò il libro di Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, che, tradotto in tutto il mondo, generò il mito di un modello di vita politica e culturale sbocciato come «uno splendido fiore in mezzo al deserto». In polemica con il positivismo del suo tempo, lo storico svizzero dettò un canone interpretativo di potente e influente durata, che ponendo l’accento sui valori della creatività, si prestava a fiancheggiare il rinnovamento delle arti decorative in corso in Europa, ponendosi come alternativa all’evocazione del Medioevo di Ruskin e Morris.
Paradossalmente, nella più inglese di tutte le più moderne istituzioni del XIX secolo – il Crystal Palace di Londra – la «lingua» artistica che parlava con maggior efficacia al pubblico e alla critica fu proprio quella del Rinascimento italiano: uno stile ideale, ovviamente, che fece scrivere a più di un osservatore: «quelli che sembrano essere i designer più abili di Italia, Francia, Austria, Inghilterra, hanno scelto questo stile per mostrare la loro abilità; se quindi l’Esposizione può essere considerata come una prova dello stile preferito del giorno, è evidentemente il Rinascimento cinquecentesco».
Per l’Italia – che arrivava oggettivamente in ritardo e indifesa all’appuntamento londinese – fu un assist non da poco, che incoraggiò la produzione e fece crescere l’autostima nazionale. Nell’epoca della incipiente produzione di massa, si imponeva la centralità della bottega artigiana come sinonimo di qualità (che per altri versi e in chiave aggiornata è il Leitmotiv dell’attuale Made in Italy e del fatto a mano) e la richiesta di beni di lusso dedicati a palazzi, a ville e grandi dimore in costruzione in Europa e in America trovò nello “Stile italiano” (si pensi fra tutti a Henry James) insostituibile riferimento e pietra di paragone per ogni tipo di produzione improntata all’eleganza, alla squisita fattura, alla preziosa esecuzione. Anche quando questa non era propriamente italiana, come la manifattura inglese Wedgwood che con la sua serie Etruria si ispirava in maniera libera ai buccheri etruschi, invadendo il mondo di tazzine, vasi e buccheri per servire il tè.
Il marchio Italia cominciava a funzionare: l’identità culturale si stava saldando all’economia e l’arte cominciava a diventare variabile non trascurabile del Pil. I primi effetti si sentirono nelle fiere internazionali dove i lavorati toscani, lombardi, romani andavano incontro alle esigenze delle nuove classi emergenti europee, a sentire almeno i commenti dell’economista Paul Leroy-Beaulieu che nel suo report sull’esposizione universale di Parigi del 1878 osservava con stupore: «l’Italia è tra i Paesi del mondo che si è più arricchito negli ultimi dieci anni».
Leggendo tra le pieghe più curiose di queste cronache, Dellapiana ci mette di fronte a vizi e virtù di un’Italia che, nonostante tutto, non sembra molto cambiata da allora. Nel 1893 – quasi mezzo secolo dopo la fiera universale di Londra – l’esposizione colombiana di Chicago colse il governo Giolitti nel difficile intermezzo dello scandalo della Banca Romana: mancando i fondi per allestire una degna partecipazione all’evento, soccorse la fantasia (se si vuole l’involontario colpo di genio mediatico). L’area della fiera – si ragionò – «è quasi tutta circondata dall’acqua e ha una certa somiglianza con Venezia. Così per rendere maggiore tale rassomiglianza, si fecero venire da Venezia gondolieri con i loro costumi e le loro gondole. E ora fanno bella figura nel recinto dell’esposizione».
Un’Italia da cartolina, si direbbe, ma di quelle cartoline che rimangono nel cuore: la White City di Chicago, osserva Dellapiana, è infatti «la più italiana delle esposizioni universali, nella sua architettura candida che viene fatta risalire agli anni d’oro del Rinascimento».
Vennero poi gli anni del fascismo e il Rinascimento fu sostituito dall’Impero Romano: le tecniche di marketing culturale si aggiornarono al passo dei nuovi mezzi di comunicazione: all’identità risorgimentale si sovrappose la retorica del regime che si servì dell’arte, del design e dell’architettura come suadenti strumenti di consenso. Il Made in Italy era oramai una realtà di cui impresa e politica figuravano facce della stessa medaglia: si era creato un mito che il Dopoguerra rinfocolò all’insegna della democrazia, rendendolo eterno coi toni di una favola a lieto fine.