Tuttolibri, 25 marzo 2023
Intervista a Paola Capriolo - su "Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo" (Bompiani)
La letteratura come una realtà più bella e a volte anche più vera. Vale per Irina Nikolaevna, la protagonista del romanzo, ma pure per chi scrive e certamente per chi legge. Che entrando in queste pagine vivrà qualche ora fiammeggiante nella Sanremo fin de siècle, sorta di wunderkammer di quanto l’Europa offriva di meraviglioso, quando la season mondana era l’inverno e l’aristocrazia mondiale faceva a gara per assicurarsi qui il suo posto al sole. Letterale, perché veniva a curarsi dai mali polmonari del tempo, un po’ gli stessi per cui d’estate andava a Davos. Però qui c’era il mare e un clima che scatenarono una voglia di ville, grandhotel e parchi che avrebbero ospitato gli ozi della zarina di Russia, del futuro Kaiser Federico, dell’imperatrice Sissi e di tutto ciò che ronza intorno alle corone: gentiluomini di camera, maraja e granduchesse, poeti, musicisti, industriali, luminari e talentuosi parvenu.
Irina Nikolaevna arriva qui un pomeriggio di settembre del 1881, dama di compagnia per la vedova di un baronetto inglese, Lady Brown. Vivranno insieme vent’anni - e noi con loro - prima sognando e poi vivendo le feste di Madame Ormond, poetessa e moglie dell’industriale svizzero (ramo sigari) che farà della sua villa con parco un Eden visitabile ancora oggi; Villa Zirio invece la vedranno solo da lontano, ma avvisteranno il suo ospite più illustre, il futuro re di Prussia con gli amici - da Wagner in giù - che venivano a trovarlo. E in calesse andranno - e noi sempre con loro - a portare conforto al maestro anarchico che vive nei vicoli malsani della Pigna, ad aiutare i sopravvissuti al terremoto che ha distrutto il paese di Bussana. Vivranno - e noi sempre con loro - l’apprensione per l’arrivo del nuovo proprietario della villa vicina: Alfred Nobel, il cui fratello era appena saltato in aria in un esperimento con la nitroglicerina. Irina ne diventerà amica e ne raccoglierà la confidenza sull’intenzione di istituire un certo Premio. Ma chi è questa Irina umile e arrogante che sa far parlare tutti e di sé non dice nulla, se non che è russa e ha dentro «il sangue dei boiardi»? Ce lo chiederemo fino alla fine, tra conversazioni colte e ironiche, in luoghi e atmosfere descritte magnificamente, scintillanti e cupe, piacevoli e inquiete come quel sonnacchioso e dorato fine secolo che stava per essere travolto dal rombante Novecento.
L’INTERVISTA ALL’AUTRICE
Le case dicono di noi, quelle degli scrittori le leggiamo come un’introduzione ai loro libri; così la giungla di piante sulle scale di Paola Capriolo fa pensare a una passione, visto il nuovo romanzo ambientato fra le mille varietà botaniche delle ville di Sanremo. E però «no, questi vasi son della vicina» si schermisce la scrittrice e traduttrice milanese, che ci invita a entrare in casa dove il primo contatto - fisico - è invece con un pianoforte a coda nell’ingresso, il cui coperchio fa anche da cuccia per due gatti. Poco più in là, la libreria e un tavolo con tantissimi volumi non disposti con criterio estetico ma vecchi, nuovi, verticali, orizzontali, persino enciclopedie, comunque tutti manifestamente letti. E capisci che in questa casa si suona, si scrive e si traduce, si legge e si rilegge; «sì, da molto tempo ho preso a ri-leggere», dice, mostrandoci poi la piccola veranda dove lavora alle sue traduzioni e ai suoi romanzi, guardando i tetti di Milano e, più in là, la Madonnina. «Sì, è una casa che ha poco pavimento e molto cielo».
Ma nel poco pavimento c’è un grande pianoforte.
«Mio marito insegna storia della musica al Conservatorio di Torino e ogni tanto mi rallegra con qualcosa di bello, se in questo libro a un certo punto compare Chopin forse è perché lui lo stava suonando mentre scrivevo».
Questo suo ultimo romanzo è “Irina Nikolaevna”, un’ode a Sanremo e al Ponente ligure, meno noto e celebrato del Levante. Invece lei sembra lo conosca bene. Ci è legata per qualche motivo?
«In realtà è una conoscenza recente perché da bambina andavo in vacanza a Levante, poi con mio marito tre mesi prima che scoppiasse il Covid abbiamo scoperto Toirano e preso una casa lì, dove in questi anni di lockdown e di smart working siamo stati molto; il Ponente mi affascina perché è meno ovvio di altri posti con vocazione solo turistica, ha ricchezze storiche, un entroterra con borghi meravigliosi, e poi avevo genitori piemontesi - papà originario delle Langhe, mamma di Torre Pellice - e il legame fra le due regioni è forte e mi fa sentire doppiamente a casa».
Chi è Irina Nikolaevna, una che ha fatto della sua vita un (bel) romanzo?
«Questa è l’unica cosa certa che possiamo dire di lei, un personaggio che rimane misterioso direi fino alla fine; sappiamo che è una grande lettrice, che si è “nutrita di romanzi”, e che questo dà un’impronta alla sua vita, nel senso che lei traduce in realtà il mondo della pagina. La cosa più intima che dice di sé è “l’immaginazione per me è tutto”, per lei la realtà è “il nudo pretesto per il dispiegarsi di una fiaba”».
Ci sono dettagli meravigliosi sulla Sanremo fin de siècle: tutti veri o verosimili?
«Alcune cose sono vere altre solo verosimili perché legate a mode dell’epoca che mi sono figurata compatibili con il gusto un po’ sopra le righe di quella Sanremo. In generale mi sono documentata quel tanto che bastava ma senza volere scrivere un romanzo storico, per concedermi una certa libertà. Mi interessava più la verosimiglianza».
A un certo punto definisce Sanremo “la Davos sul mare”. Lei ha tradotto Thomas Mann, ha tenuto presente la “Montagna Magica” e la “Morte a Venezia”?
«Sì, la stessa fascinazione che Sanremo ha esercitato su di me è un po’ figlia di questa passione, quando scrivo che questo luogo con la sua ripetitività delle stagioni ottunde un po’ il senso del tempo è un omaggio implicito alla Montagna incantata, in cui questa cosa è molto sottolineata».
Nell’atmosfera dorata del suo romanzo sono presenze inquietanti la malattia, la morte, il terremoto, la guerra imminente. Era nelle sue intenzioni suscitare analogie con il tempo presente?
«Certamente no, io pensavo al Novecento che incombeva e segnerà la fine di questa sorta di paradiso, ma in effetti molti aspetti si ritrovano nella realtà di oggi; la pandemia, la guerra in Ucraina, il terremoto. A dirla tutta, io ho dato molta importanza al personaggio dell’anarchico - un controcanto al mondo che descrivo e alla protagonista - e oggi si parla pure di questo...».
Cita un libro oggi quasi sconosciuto, “Il dottor Antonio”, scritto in inglese da un italiano, Giovanni Ruffini, figura pionieristica di italiano che va a Londra e riesce a farsi ascoltare; grazie al suo romanzo la Riviera strappò un bel po’ di nababbi alla Costa Azzurra. Perché secondo lei non lo conosce quasi nessuno?
«Speriamo che venga riscoperto perché la sua è una storia avvincente, il libro ha un suo humour e quindi non capisco questo oblio, oltretutto lui è anche una bella figura di patriota».
Gli alberghi e le ville sono personaggi del romanzo. Quella con il camino del castello dei Doria di Dolceacqua, quella con la novità dell’ascensore Stigler-Otis. Le conosce, raccontano ancora bene la loro storia?
«Molte ho potuto vederle soltanto dai loro parchi, ma mi è bastato; lo stimolo a scrivere mi è stato dato proprio dall’incontro con villa Ormond e villa Nobel che ho scoperto quasi per caso, ma è stata una sorta di folgorazione».
La Pigna, Taggia, Riva Ligure… lei descrive anche luoghi lontani dallo scintillio di Sanremo.
«La floricoltura cominciava appena e non c’era un turismo diffuso; un po’ come anche in Svizzera, al di fuori di Sankt Moritz o di Davos i villaggi intorno vivevano di luce riflessa, così Sanremo e Bordighera erano quasi delle isole. Ma ancora oggi arrivando a Sanremo si provano sensazioni quasi di alterità rispetto a quel che c’è intorno».
Altri veri personaggi del romanzo sono i due aristocratici gatti persiani.
«Sì, sono questi due che vede qui in casa, uno è il protagonista di un altro mio libro; in realtà non sono persiani ma Burmilla, però ho avuto per anni gatti persiani e non direi che siano altezzosi, se non per il fatto che tutti i gatti hanno un contegno aristocratico, vogliono essere trattati con la dovuta deferenza».
Lei è anche traduttrice dal tedesco, come si aggiorna? Lo stile letterario è cambiato...
«Io ho tradotto quasi esclusivamente classici quindi diciamo che spesso devo andare a consultare vocabolari come quello dei Grimm, comunque certamente non moderni. Però poi leggo anche valanghe di scrittori contemporanei perché sono giurata di un premio Italo-Tedesco per la traduzione letteraria; sì, lo stile è profondamente cambiato, ma in un senso che non mi piace, di appiattimento su uno standard internazionale, che poi è quello americano. Se anziché esplorare le risorse specifiche della propria lingua - e questo vale anche per gli scrittori italiani - si riproduce questa lingua che sembra già una traduzione, lo trovo un impoverimento; la modernità dovrebbe essere un dialogo tra queste tradizioni, non una ricerca del minimo comun denominatore. È come se mancasse l’attrito rispetto all’immaginazione».
Che intende per attrito?
«Che c’è una semplificazione estrema della sintassi, quasi non ci sono subordinate, e io amo Thomas Mann che è il re delle subordinate. A volte traducendolo anch’io ho momenti di insofferenza e mi fa pensare a Schopenhauer secondo il quale, prima di cominciare a leggere una frase di certi scrittori tedeschi, è meglio dare un’occhiata all’orologio. Non dico si debba arrivare a questo, però se sei capace di reggerla perché no? Ricordo quel bellissimo libro di Giovanni Mariotti, Storia di Matilde ripubblicato anni fa da Adelphi, fu la scommessa di scrivere una sorta di romanzo breve come un’unica frase, e ci è riuscito».
Suo padre, Ettore Capriolo, è stato un grande traduttore. Che consigli le dava?
«Il più importante era di non dimenticare mai, per la fedeltà alla lingua di partenza, la fedeltà alla lingua d’arrivo. Cioè mi diceva di scordarmi, a un certo punto, che stavo traducendo nel mio caso il tedesco e di pensare che sarebbe uscito un libro in italiano e quindi di renderlo assolutamente naturale. Così nella revisione conclusiva non guardo più il testo tedesco, perché deve suonare come fosse stato pensato in italiano».
Suo padre ha mostrato come tradurre possa voler dire essere associati, confusi o considerati corresponsabili di un testo con l’autore: nell’89 tradusse «I versi satanici» di Salman Rushdie e nel ‘91 venne accoltellato in casa propria, salvandosi per miracolo. Quando venne pronunciata la fatwa, non avete avuto paura?
«No, non ci eravamo resi conto del pericolo, probabilmente nemmeno Rushdie lo aveva previsto fino a questo punto, forse anche perché ancora non c’erano stati gli attentati dell’Isis, di Al Qaeda, il nostro mondo non era mai stato colpito in modo così diretto dal terrorismo islamico, è stato uno choc, una cosa totalmente inaspettata; quindi no, prima che succedesse non avevo paura e nemmeno mio padre, tanto che ha ricevuto questa persona senza il minimo timore».
Ha sentito Rushdie dopo l’attentato di agosto?
«No, non ho nessun rapporto con lui».
Tornando al libro, il Ponente è una terra feconda di talenti letterari e scientifici, quest’anno è il centenario di Calvino, cresciuto a Sanremo.
«Madre e padre erano illustri agronomi e botanici, dirigevano la Stazione Sperimentale di floricultura proprio in una di quelle ville sanremesi. Io Calvino l’ho adorato fin da piccola e ne ho sempre ammirato il cosmopolitismo nel senso migliore del termine, questo suo non essere del tutto uno scrittore italiano ma europeo; pur avendo anche questo coté ligure molto forte, ha una apertura che è il contrario del provincialismo, perché Sanremo non è provincia, forse anche per la vicinanza alla Francia, cioè il centro della cultura europea fino a pochi decenni fa».
Che direbbero le protagoniste del suo romanzo, un po’ snobbettine, della Sanremo del Festival?
«Credo che cambierebbero casa; forse andrebbero a Riva, ci si erano trovate bene».