Robinson, 26 marzo 2023
Intervista a Graziano Gregori
Mi imbatto in un pensiero di Iosif Brodskij. Dice che «Il fine dell’evoluzione – ci crediate o no – è la bellezza, che sopravvive a tutto e genera la verità per il semplice fatto di essere una fusione di ciò che è mentale e di ciò che è sensuale». Non dice che la bellezza salverà il mondo, dice che è un’espressione che si fa largo a fatica e che è stata in grado di sopravvivere solo perché ha saputo difendere se stessa, come pensiero e come corpo.
Salvarsi innanzitutto. Ritrovo il senso di questa frase in un lembo della provincia marchigiana. Nello studio di un artista che vive appartato tra le sue molteplici ossessioni. Si chiama Graziano Gregori. È la prima e ultima vittima del suo demone che gli alimenta l’immaginazione selvaggia, la voluttà di disegnare, creare bozzetti, allestire macchine di scena. Sembra uscito da una bottega rinascimentale. Con uno studio a immagine e somiglianza, posto a un lato estremo di Colli del Tronto, dove vive insieme a due sorelle.
Sei nato qui?
«A circa quattro chilometri, a Castorano. Con gli arretrati della pensione di guerra e qualche aiuto, papà comprò una casetta qui a Colli del Tronto. Ci andammo a vivere con la mamma e le tre sorelle. Nazzarena morì giovane e io vivo con le altre due. Non ci siamo mai sposati. Non abbiamo figli. Siamo cresciuti assieme. Il mio primo ricordo è una radio Telefunken attorno alla quale ci riunivamo la sera per ascoltare musica. Quello che la vendette a mio padre mi regalò una trombetta.
Avevo tre anni. Mi sembrò un dono bellissimo, piùprezioso della radio, dalla quale ho imparato molto».
Elencami i tuoi studi.
«Scuole primarie, poi l’istituto d’arte ad Ascoli e Architettura a Firenze. Fu durante il periodo fiorentino che conobbi Grazia Cipriani. Con lei, e altri giovani, fondammo a Lucca il Teatro del Carretto. Ho vissuto per diciotto anni a Lucca. Rinunciai alla professione di architetto per il teatro. Sono un autodidatta della scena. Poi anche questa esperienza si è conclusa».
Perché?
«Ho lavorato con il Teatro del Carretto fino al 2016. Poi nel 2018 ho definitivamente smesso. E da allora ho ricominciato a disegnare. Nella contabilità personale ci sono 77 spettacoli divisi in parti quasi uguali tra prosa e opera. Di tutto quello che ho fatto a teatro prediligo Le troiane di Euripide, uno spettacolo di grandioso dolore».
Alcuni hanno parlato di “capolavoro” riferendosi alla tua “Iliade”.
«Mi gratifica sapere che Iliade, Pinocchio, Biancanevesiano considerati spettacoli straordinari. Ma lo spazio che ho realizzato per Le troiane, non era solo spazio scenico, ero lo spazio organico dell’anima. Per me fu una specie di utopia realizzata».
Ma è vero che esiste in teatro un colore definito “rosso Gregori”?
Qualcuno per scherzo o per esasperazione lo classificò come fosse un “rosso pompeiano”. Ero a Verona per
Arlecchino servo di due padroni e si trattava di creare un equilibrio cromatico tra il rosso della pedana e il colore dei modellini in scala che avevo creato. Il rosso carminio era troppo scuro e a me serviva un rosso chesembrasse sangue. Chiesi che la pedana fosse ridipinta e alla fine, dopo diversi esperimenti, venne fuori questo colore molto personale».
Sei molto attento ai dettagli.
«Lo sono per necessità e per insoddisfazione. Non è facile, me ne rendo conto. Ma ogni artigiano che si rispetti, non ho voglia di usare la parola artista, sa che nella ricerca del dettaglio si nasconde il buon Dio.
Qualcuno si stupisce che le mie ricostruzioni di figure “umane” sembrino vere. Gran parte del mio lavoro consiste nell’immaginare e trovare la proporzione degli oggetti, renderli vivi nell’artificio totale. Questa è l’essenza del teatro. Oltre, ovviamente far credere a cose che non esistono».
C’è qualcosa di ronconiano nel tuo lavoro.
«L’ho conosciuto e apprezzò molto il mio spettacolo dedicato all’Iliade. Quello che Ronconi ha lasciato come autentica lezione è il senso di nudità delle cose.
Una ronconiana vera fu Marisa Fabbri. Mi affascinava il suo modo di giocare con le parole come fossero nell’aria. Per poi depositarle nella voce che dava loro la concretezza necessaria».
Per te che non sei regista ma scenografo, che cos’è un attore?
«Un attore che si rispetti non deve escludere l’oscurità del teatro. Non deve limitarsi ad essere professore delle parole, ma afferrarle e colorarle di nero. Spesso gli attori sono tali dalla testa alla gola, ma è come se non avessero corpo e allora la dizione diventa estetismo. E l’estetismo alla lunga stanca».
Ci sono attori che corrispondono alla tua visione del teatro?
Visto che si accennava a Ronconi, due attori perfetti per la sua misura sono stati Franco Branciaroli e Massimo Popolizio. Per quanto mi riguarda farei un nome su tutti: Marcello Mastroianni.
Lo fai perché?
Realizzai le scene del suo spettacolo Le ultime lune, un testo sulla vecchiaia. Proprio nel II atto, ormai all’ospizio, Marcello recitò un monologo straordinario. Alla fine mi sembrava trattenesse le lacrime. Ci fu un lungo silenzio prima dell’applauso, non l’applauso rituale ma una vera catarsi collettiva. In quei mesi che precedettero la sua morte ne compresi grandezza e umanità. Non il Marcello felliniano bello, indolente, disincantato. Recitare per lui equivaleva a una qualsiasi altra cosa. Ma non era così. In quel monologo avvertivo che la sua stessa vita gli stava sfuggendo. Era stato operato di cancro ai polmoni. Ed era lì come un soldato pronto ogni sera per l’ultimo assalto. Il suo teatro si faceva esistenza. Dramma vero.
Testimonianza finale».
Hai lavorato anche per l’opera.
«Una parte cospicua dell’impegno l’ho dedicata alla musica. Con Claudio Abbado e il figlio Daniele, per esempio. Con Daniele ho fatto sette o otto spettacoli, lui alla regia e Claudio alla direzione».
Ne ricordi uno in particolare?
«Al Teatro Valli di Reggio Emilia facemmo Il flauto magico. Curai la scenografia ma non ero completamente soddisfatto del mio allestimento.
Troppe idee, troppa ridondanza e qua e là solo qualche lampo di poesia. Se dovessi rifarlo lo farei in modo differente».
Com’era il rapporto tra i due Abbado, padre e figlio?
«Claudio era il carisma. Già dalla prima prova si avvertiva in lui la forza dell’invisibile. La potenza del silenzio che scandisce la musica. Non aveva bisogno di imporsi all’orchestra. Aveva uno stile che credo abbia fatto bene a Daniele. Colmare certe disparità tra padre e figlio è difficilissimo e per riuscirci occorre moltoascolto reciproco».
Il rapporto con tuo padre come è stato?
«Sono convinto che quel tanto di creatività che ho sviluppato la debba a lui, a quello che gli accadde».
Spiegati.
«È una sensazione che ebbi un giorno quando lo vidi rientrare con una ferita al sopracciglio. Il sangue gli colava lungo il volto. Disse alla mamma che era caduto dalla moto. E dopo averlo detto gli venne un conato ed espettorò sangue. Fu chiamato il dottore che lo bendò e gli fece una iniezione. Qualche giorno dopo papà fu ricoverato in un sanatorio. Aveva contratto la Tbc nel campo di concentramento di Buchenwald, dove rimase per 33 mesi, tornò a casa che pesava 36 chili».
Che cosa c’entra con la tua creatività?
«Da allora ho iniziato a pensare che lo shock provato per quella scena avrei potuto riviverlo solo attraverso il gesto artistico. Attraverso la forza del sorprendente.
Anche quel “rosso Gregori” del quale parlavamo ha nell’episodio di mio padre il punto di origine. Quello che aveva vissuto nella prigionia gli trasmetteva un’aura di “intoccabilità”, qualcosa di così “straordinario” da convincerlo che fosse impossibile da condividere, se non nell’evidenza della ferita».
Stai dicendo che l’arte non può fare a meno del trauma?
«Non può prescindere dalla lesione e daldanneggiamento. È questa l’origine della parola trauma. E ne ritrovo il senso nella decisione di riprendere a disegnare».
Perché hai chiuso con il teatro?
«Perché non avevo più alcuna spinta visionaria. Non avvertivo più il lato oscuro del teatro. Il teatro, qualunque cosa voglia significare, deve mettere in contatto con il sacro. Con ciò che è il tremendo. Per questo ho ripreso a disegnare, cosa che facevo solo da piccolo. Per ritrovare quella spinta che era caduta. E l’ho fatto riprendendo a leggere e rileggere Dante».
Ho visto un po’ di questi lavori che hai dedicato all’ Inferno dantesco. Come è nata questa predilezione?
«È stato il mio giro nell’oscurità, in quel luogo dove non ci sono speranze. Mi ha aiutato la convinzione che in Dante c’è poco di solenne e molto di romanzesco».
Romanzesco?
«Mi fa pensare a certi personaggi di Dostoevskij che non ce la fanno a controllare le emozioni. E questo mi ha permesso di vedere i Canti dell’Inferno fuori dall’accademia. È un Dante multiforme che ho disegnato attraverso i personaggi del suo Inferno. Gli ho tolto il naturalismo che di solito l’iconologia gli ha appiccicato. Via gli Appennini, le fiamme e gli antri; l’ho alleggerito dal peso soverchiante del mondo medievale, creando ambienti dove le persone sembrano formiche».
Non hai pensato alle altre cantiche?
«Più che il Purgatorio, che mi sembra condizione troppo scontata, mi interesserebbe il Paradiso. Non mi dispiacerebbe passare dalla merda degli inferi alla luce accecante e sublime dei cieli. Ma dopo aver trascorso qualche anno con Dante ho pensato che fosse giunto il momento di lasciarlo».
Sei passato a Shakespeare.
«Ho trascorso alcuni mesi a leggerlo. E alla fine ho deciso che il mio lavoro dovesse concentrarsi sul
Riccardo III».
«È malato di potere assoluto. Lui ti può dire che è nato storpio, che fa schifo, ma possiede un talento nell’uso delle parole che incanta. È brutto, sconcio eppure si sente un sovrano assoluto, si crede Re Sole. Mi sembra di essere passato dalla moltitudine dantesca all’unicità di un destino che alla fine è solo voce. Averlo scelto per la mia storia a disegni ha significato entrare nella patologia. Entrare in un mondo geneticamente portato alla distruzione ma non del tutto corrotto. In via di corruzione. Non è questa, dopotutto, la nostra condizione?».
Quale più esattamente?
«Quella di essere soli come Riccardo. Mi attrae la solitudine delle persone. Quando lessi La metamorfosidi Kafka avevo poco meno di vent’anni. Sposai in pienola solitudine di Gregor Samsa. Mi affascinava la sua repentina trasformazione in un insettone e lo schifo che suscita. La patologia non è quella che ti porti addosso, è come gli altri ti vedono. Ed è così che io vedo anche Riccardo III».
Se tu dovessi ambientarlo a teatro?
«Mi chiedi qualcosa che non sono disposto a fare».
È solo un’ipotesi.
«Potrei immaginare che tutto si svolga in una specie di teatro anatomico. Dei dottori che ne vivisezionano il cadavere. E poi dovrebbe avere due corpi, assumere due voci. Mi viene in mente I due corpi del Re di Ernst H. Kantorowicz».
Il corpo simbolico e quello destinato a perire.
«Esatto, non c’è potere senza simbolo. Come non c’è corpo senza dolore e gioia».
Non dai proprio l’impressione della persona gioiosa.
«Lo sono quando vado a camminare in montagna a cercare porcini. Sono un cacciatore di funghi. La differenza è che i funghi li raccogli con due dita. Solo il porcino vuole l’intera mano».
E questo che vuol dire?
«Ogni cosa ha la sua forma difforme. Non è questo il compito dell’arte, della bellezza, del sogno? Sono le mie passioni per l’imperfezione».