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 2023  marzo 26 Domenica calendario

Intervista a Daniel Pennac

Nella sua casa di Parigi, davanti a un piatto di spaghetti, lo scrittore spiega perché ha deciso di concludere la saga iniziata nel 1983 che lo ha reso celebre “I tempi sono cambiati e con loro anche i personaggi. Tranne Malaussène”
«HParigi
o iniziato a scrivere la prima storia della famiglia Malaussène nel 1983, quarant’anni fa. Anche se non saprei dire esattamente perché, mi sembra che sia giunto il tempo di mettere fine a quest’avventura». Daniel Pennac presenta cosìCapolinea Malaussène, il nuovo romanzo con cui ha deciso di concludere la sua famosissima “saga di Belleville”, che con i suoi sette volumi ha venduto oltre cinque milioni di copie in tutto il mondo. «Le opere hanno una loro temporalità e una loro vita che a un certo punto si esaurisce naturalmente. Avrei potuto continuare a scrivere altri episodi, seguendo le avventure dei personaggi, specie quelle dei nipoti di Benjamin Malaussène, che negli ultimi due romanzi hanno assunto un ruolo centrale. Ma non è più possibile, sento che un ciclo è finito. Forse dipende semplicemente dalla mia età o forse dal fatto che ho voglia di raccontare altre storie con altre forme».
L’azione del nuovo romanzo inizia dove cinque anni fa si era interrotto Il caso Malaussène, nelle cui pagine i nipoti di Benjamin rapivano un potente uomo d’affari per fare un’azione dimostrativa a fini umanitari, senza immaginare che poi il malcapitato sarebbe stato sottratto loro da una banda di veri malviventi disposti a tutto in nome del denaro. E ora i cattivi, comandati da un genio del male che tutti chiamano “Nonnino”, se la prendono direttamente con la tribù Malaussène, mentre Verdun, la sorella di Benjamin diventata giudice istruttore, cerca di capire chi si nasconda dietro le trame oscure che minacciano i suoi fratelli. Ne seguono come sempre molte peripezie, colpi di scena e un finale pirotecnico. «Credevo che scrivere quest’ultima avventura sarebbe stato più difficile, anche perché alla fine del Caso Malaussène non avevo assolutamente idea di dove sarebbe andata a finire la storia. Sapevo solo che non m’interessava ripetere la classica inchiesta da romanzo poliziesco, fatta di cadaveri, indagini e sospetti», racconta il romanziere nella sua casa parigina, davanti a un piatto di spaghetti al ragù, uno dei suoi piatti preferiti: «Poi il caso ha voluto che fin dalle prime righe mi sia imbattuto nel personaggio di Nonnino, che è diventato immediatamente il principio dinamico del libro. Era talmente originale che l’ho seguito di pagina in pagina».
In cosa consiste la sua originalità?
«Rappresenta la dimensione pedagogica applicata all’universo del male. Purtroppo, alla fine della mia vita, sono costretto a constatare che la sola attività continuamente prospera è l’industria del male, che sia individuale o collettiva, come purtroppo ci ricorda la guerra in Ucraina. Ho raccontato quindi una banda di malviventi che si costituisce attraverso una pedagogia del crimine, figlia della cattiveria di questi nostri tempi. E al centro della banda c’è un professore del crimine,Nonnino. Naturalmente non sono il primo a occuparmi della pedagogia del male, in passato lo hanno già fatto Dickens inOliver Twist o Huysmans inA ritroso».
Come agisce Nonnino ?
«In un mondo dove tutti si definiscono attraverso identità molto marcate, riesce a rendere i suoi giovani allievi privi d’ogni identità riconoscibile trasformandoli in fuorilegge.
A lui non interessano le identità degli uni e degli altri, le identità sessuali, etniche, ideologiche. I suoi ragazzi possono fare quello che vogliono e con chi vogliono, basta che non abbiano un’identità in conflitto con quella della banda. La loro unica identità deve essere quella che procura loro Nonnino, l’identità del crimine, del male, che poi è l’identità naturale dell’uomo, prigioniero dei suoi bassi istinti. Nonnino educa i suoi allievi in questa direzione, utilizza la sua autorità morale per corromperli, ma rivelandone i talenti nascosti. È un processo che ha avuto luogo infinite volte nella storia dell’umanità».
Alla fine però Nonnino affascina il lettore e sembra quasi diventare simpatico…
«In realtà non è per niente simpatico, è un pericoloso demagogo. Quello che lo rende intrigante agli occhi del lettore è il fatto che spesso le sue analisi siano giuste.
Nonnino non si sbaglia, ma le finalità del suo ragionamento sono evidentemente inaccettabili».
Anche lei è stato a lungo un insegnante. Nonnino è il suo ritratto in negativo?
«No, ma è vero che, come me, è un pedagogo e ha il senso della comunità. In realtà alcune persone sono pedagoghe per natura, anche se poi applicano il loro talento pedagogico ad ambiti più negativi di altri, il che è ovviamente un problema. È il caso di Nonnino, che oltretutto incarna lo spirito di questi nostri tempi, dominati dall’egoismo, dalla cattiveria individuale e collettiva».
Nella lotta tra il bene il male, nel romanzo spicca il personaggio di Verdun, la sorella di Benjamin diventata un’inflessibile giudice istruttore…
«Verdun rappresenta la legge, il diritto. Le interessano i fatti, non i giudizi. Vuole liberare i fatti da ogni idealizzazione, perché dal punto di vista dell’ideale non ci saranno mai colpevoli, dato che ciascuno ha le proprie ragioni. Per questo Verdun si sforza di adottare uno sguardo oggettivo sul mondo. Sa che il diritto è cosa diversa dalla giustizia, la quale è amministrata dagli uomini che corrompono il diritto con le loro sensibilità, le loro idee, i loro principi, i loro pregiudizi. Nel momento in cui il diritto diventa giustizia può fuorviarsi. Senza dimenticare che tutto l’apparato giudiziario cerca di costruire una narrazione coerente, mette insieme i fatti cercando di adattarli a un unico racconto che possa spiegare un evento apparentemente inspiegabile.?continua nelle pagine successive