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 2023  marzo 26 Domenica calendario

Intervista a Ai Weiwei e Isgrò


Le parole hanno lunghe radici. Quelle di Ai Weiwei, che è probabilmente l’artista e attivista cinese più noto al mondo, pescano nel profondo della propria infanzia. Nel rapporto con il padre, soprattutto, il poeta Ai Qing, deportato a più riprese nelle feroci stagioni del maoismo. Il memoir di Ai Weiwei, 1000 anni di gioie e dolori, in uscita per Feltrinelli, è un’autobiografia che si sofferma molto sul farsi del futuro artista, sui primi sguardi sul mondo, su epifanie drammatiche, come i libri arsi dagli zelanti rivoluzionari. Un’elegia sulla parola negata e ritrovata, mozzata e poi gridata, ed è per questo che a «la Lettura» è sembrato naturale fare dialogare Ai Weiwei con uno dei grandi artisti italiani di oggi: Emilio Isgrò, che vide i fogli strappati dell’enciclopedia Treccani «mulinare nell’aria», un «presagio» di quelle parole cancellate che sono la sua cifra più immediatamente riconoscibile. I due artisti, che hanno dialogato grazie all’interprete e docente di cinese Chiara Bartoletti, condividono parecchie opinioni, a partire dalla cancel culture: «La considero simile a quanto avvenne in Cina negli anni della Rivoluzione culturale – dice Ai Weiwei – quando si cercò di distruggere la nostra memoria. Anche se i ricordi non sono così piacevoli, restano parte di noi. Nessuno ha il diritto di dire cosa cancellare o no, nessuno può cambiare il passato. La cosiddetta cancel culture è un suicidio: significa non avere rispetto per sé stessi né rispetto tout court. Dobbiamo avere il coraggio di affrontare il passato. E se non lo facciamo, del passato diventiamo vittime». E Isgrò: «Ai Weiwei ha perfettamente ragione. È un atteggiamento figlio del puritanesimo americano. La cancel culture cancella la parola della storia. Io, cancellandola, ricopro la parola d’uno strato d’inchiostro nero per preservarla in vista del futuro: per quando, cioè, gli uomini smetteranno di chattare e torneranno a parlarsi davvero».
Il memoir di Ai Weiwei è un libro sull’essere padri e l’essere figli. Sulla voce del padre che parla attraverso il figlio. Quali aspetti della relazione con il padre sono presenti nella vostra pratica artistica oggi?
AI WEIWEI — Purtroppo tra mio padre e me c’erano 47 anni di differenza e quindi lui ne aveva 57 quando iniziai ad avere consapevolezza di quello che avrebbe potuto raccontarmi. Abbiamo parlato poco quando ero più piccolo. Senz’altro un aspetto che si ritrova nella mia arte e che mi ha lasciato lui è la precisione, la diligenza con la quale portava avanti ogni progetto o anche ogni semplice cosa. Perfino quando fu punito, quand’era più debole, era sempre molto attento a quello che faceva.
EMILIO ISGRÒ — Ai Weiwei, tu sei figlio di un padre in una Cina che, leggendo il libro, mi ricorda molto la Sicilia di mio padre. I tuoi ricordi della campagna cinese mi sembravano raccontare qualcosa anche di me. Il rapporto con mio padre, d’altra parte, è stato un po’ diverso dal tuo ma ugualmente forte. Il mio era molto normativo e, insieme, apertissimo e trasgressivo; e ne ho sempre apprezzato la passione per lo studio. Era una persona modesta, autodidatta, ma voleva che crescessi in un certo modo, che studiassi. La prima cosa che ho fatto, ed è forse un tratto che mi accomuna a te, è stata quella di rifiutare la sua autorità d’insegnante e ciò che mi aveva insegnato. Tu, cresciuto in un mondo cinese, non hai potuto farlo allo stesso modo, perché lì il rapporto con gli anziani è anche formalmente più rispettoso. Però mio padre ha contato molto per la sua determinazione e la voglia di vincere una fortuna non favorevole. Un po’ come tuo padre, ma per altre strade.
Ai Weiwei, suo figlio Ai Lao ha da poco compiuto 14 anni. Il dialogo con lui ha qualcosa che ricalca quello che aveva con suo padre?
AI WEIWEI — Quanto a creatività e indipendenza, si è affrancato abbastanza presto. Da quattordicenne ha moti, non proprio di ribellione, ma di contrasto con il padre.
Quando vi si è manifestata la vocazione artistica?
AI WEIWEI — È dura rispondere. Credo che derivi da un’inconsapevolezza, anche per quanto riguarda il pensiero artistico. La creazione è inconsapevole. E oggi io stesso dubito che le mie opere siano arte.
EMILIO ISGRÒ — Concordo con le sensazioni di Ai Weiwei, mi ritrovo in quello che dice. È difficile dire quando si comincia a fare gli artisti o quando ci si sente artisti. Io sono nato così, come uno nasce con gli occhi marroni o azzurri. Mi sono ritrovato artista da ragazzo perché sono cresciuto in una famiglia dove l’arte era una pratica quotidiana. Anche mio padre faceva l’artista, benché non al livello del padre di Ai Weiwei, ma è stato lui a svelarmi la metrica italiana e un po’ di musica, e avevo uno zio pittore che mi ha insegnato qualcosa.
Ai Weiwei, ha mai scritto poesia?
AI WEIWEI — No.
Ma affronterà altre esperienze letterarie in futuro?
AI WEIWEI — Credo di sì.

La parola cancellata, dunque. Un tratto che vi unisce. Ai Weiwei, che cosa provava quando la voce di suo padre poeta veniva cancellata? E quando ha compreso che anche la sua voce poteva essere cancellata?
AI WEIWEI — Sono nato nel 1957 e sono rimasto in Cina fino al 1981, quando partii per gli Stati Uniti. In quel periodo vissi la pressione politica e sociale di due epoche, di due generazioni, ed è per questo che scelsi di andare via. Rimasi in America fino al 1993 e quando rientrai in Cina mi accorsi che qualcosa era cambiato sì, ma molto era rimasto identico a prima, in particolare la censura: lo stato della libertà di parola non era migliorato. Avevo imparato da chi veniva prima di me che non c’era possibilità di manifestare dissenso o operare un vero cambiamento. Nel 2005 cominciai a usare internet e a sperimentare nuove possibilità. Le pagine del mio blog hanno raggiunto tantissime persone. Nel 2008, però, il terremoto del Sichuan (Ai Weiwei denunciò la reticenza delle autorità nel fornire il numero dei bambini e dei ragazzi uccisi nel crollo delle scuole, edifici «di tofu», disse, costruiti con materiali scadenti, anche qui con la responsabilità delle autorità, ndr), l’Olimpiade di Pechino e altri eventi hanno fatto crescere in me la voglia di impegnarmi e di oppormi, e dunque proprio allora hanno cominciato a censurare i miei scritti, le mie opere. Da allora è come se in Cina io non esistessi.
Isgrò vive in un Paese dove non gli è mai stato impedito di lavorare, ma il suo gesto artistico sembra andare nella direzione di ciò che dice Ai Weiwei.
EMILIO ISGRÒ — Intanto desidero manifestare una grande solidarietà ad Ai Weiwei perché è stato meno fortunato di me per quanto riguarda i comportamenti censorî. Tuttavia, e mi pare che lui questo lo dica nel libro, non c’è bisogno di una censura formale perché un artista soffra. Non c’è bisogno di Stalin per fare soffrire un artista. Basta Pericle. Il tollerantissimo Pericle certamente non censurava gli artisti. Ma sappiamo bene quanto abbia tribolato Euripide presso gli ateniesi con il suo teatro non sempre allineato con le attese del pubblico. Un artista può soffrire anche sotto Lorenzo il Magnifico: non c’è bisogno di Ivan il Terribile. Si soffre comunque: anche senza Hitler. L’arte non è oppositiva per partito preso, ma esserlo è la sua natura. L’arte è in buona parte dissenso: anche quando un artista vuole lodare la Madonna, finisce inconsapevolmente col dire una bestemmia. Credo che Ai Weiwei si sia trovato in una situazione peggiore. Ma l’arte e le parole sfuggono spesso alle nostre stesse intenzioni, e a volte a essere oppositivo nei confronti della realtà non è l’artista in sé, ma il linguaggio: il linguaggio che ha inventato per parlare con i propri simili.
AI WEIWEI — Sono assolutamente d’accordo con te, Emilio. La censura si annida ovunque esista potere. Non è una prerogativa delle dittature. Se, in qualunque parte del mondo, esiste un potere, è automatico che s’andrà incontro a una censura. Anche nell’Occidente cosiddetto libero troviamo esempi di questo tipo: se il tuo pensiero e la tua opera non subiscono censura è perché non hanno veramente sfidato il potere dell’Occidente e quello che hai fatto non è così importante. Lo vediamo bene in due figure: Julian Assange (è il cofondatore di WikiLeaks, organizzazione attraverso la quale ha diffuso documenti statunitensi secretati, ricevuti dall’ex militare americano Chelsea Manning, ndr), ora in carcere in Gran Bretagna e in attesa di estradizione negli Stati Uniti, e l’altro è Edward Snowden (già collaboratore della National Security Agency americana, aveva diffuso dettagli di programmi top secret di sorveglianza dei governi statunitense e britannico, ndr) che attualmente è in Russia (ha ottenuto la cittadinanza russa nel 2022, ndr). Le loro azioni hanno messo in pericolo il potere dell’Occidente e per questo la loro vita è stata minacciata.

Nel memoir Ai Weiwei parla di politica che «intralcia» il lavoro creativo, di arte come «cospirazione», mentre Emilio nel suo «Autocurriculum», il libro del 2017, definisce l’arte «scuola di coraggio»: c’è comunanza tra voi. Ai Weiewei, lei ricordava di avere scoperto nel 2005 le potenzialità del web contro il potere, ma il web è a sua volta un’arma in più per il potere...
AI WEIWEI — La libertà ha sempre un prezzo: difficoltà, dolore. Crediamo che il web possa darci la libertà ma in realtà è dei governi, dei gruppi, dei poteri forti che lo possiedono.
Viviamo in una stagione di grandi «cancellature»: di principi, di valori...
EMILIO ISGRÒ — Con le buone intenzioni non si fa né politica né arte. Capisco che la cancellatura possa essere letta come una forma di liberazione anche perché nella mia visione la cancellatura non è censoria ma, al contrario, è lotta contro la censura. In pratica la cancellatura va proprio contro quei poteri che cancellano la vita e impediscono di riflettere. Anche la cultura, e Ai Weiwei lo sa meglio di me, è fatta di errori e di momenti di crescita. Se l’artista sapesse praticare forme di linguaggio in grado non tanto di sconvolgere i poteri costituiti, ma almeno di farli riflettere, questo sarebbe già un buon risultato. Per chiudere: una società veramente democratica è quella che accetta gli artisti scomodi. I Greci nell’antichità accoglievano la critica e una società che non sa criticare sé stessa è destinata a morire presto.
AI WEIWEI — Oggi non esistono Paesi veramente democratici. La differenza sta nel fatto che certi Paesi riescono a trovare voci che coprono quelle del dissenso.
EMILIO ISGRÒ — Pur senza avere un linguaggio apocalittico come Ai Weiwei, la penso allo stesso modo. Un artista deve dire questo, perché oggi l’arte è essa stessa una forma di politica, lo è in sé.
AI WEIWEI — Le dispute a cui assistiamo nel mondo dell’arte non credo derivino da domande poste dall’artista, quanto piuttosto da domande, alle quali l’artista dà forma, sulla ricerca di verità e sulla cosiddetta estetica, quesiti che scaturiscono da riflessioni profonde. Sono domande senza risposta, e la responsabilità dell’artista è di far sì che queste domande continuino a essere poste.
EMILIO ISGRÒ — Spero sia chiaro che, comunque, lui e io preferiamo vivere in Paesi democratici.
AI WEIWEI — Giusto...
Un anno e più di guerra. Ai Weiwei, qual è il suo pensiero in proposito, oggi?
AI WEIWEI — Innanzitutto voglio essere chiaro: è la Russia ad avere invaso l’Ucraina e dunque sostengo la posizione ucraina. Stati Uniti ed Europa appoggiano Kiev anche inviando armi, ma la domanda è: quanto andrà avanti ancora questo conflitto? Chi ne paga il prezzo? Serve una soluzione politica o dobbiamo lasciare che siano le persone a pagare per questo?
EMILIO ISGRÒ — Mi ritrovo in queste parole.
Ritorniamo sul versante artistico. Come si coltivano quella che noi profani chiamiamo ispirazione e, insieme, lo sguardo nei confronti della tradizione?
AI WEIWEI — Io tuttavia mi trovo d’accordo con una citazione di Confucio: amare, voler conoscere ciò che è accaduto in passato, e al tempo stesso essere curiosi verso ciò che può succedere, verso nuove possibilità. Ho sempre avuto un grande interesse per il passato dell’umanità, verso ciò che è accaduto. Benché non sia particolarmente istruito, ho sempre letto e studiato la storia, e questa curiosità si riflette nella mia arte. Cerco di riflettere sui temi sociali di oggi e ci penso ogni giorno: se non fossi un artista le mie riflessioni si fermerebbero lì, invece sento l’esigenza di trovare un linguaggio che esprima le mie riflessioni e le indirizzi alla mia arte.
EMILIO ISGRÒ — Il mio rapporto con la tradizione è sempre stato di tipo attivo, perché ho cercato di farla mia avanzando nella ricerca di linguaggi nuovi. Questo, tuttavia, poteva generare degli equivoci: io ho amato, per esempio, le avanguardie estreme con lo stesso trasporto con cui amavo il melodramma italiano. Per un artista è sempre un onore servire la cultura del proprio mondo, in questo caso dell’Europa e dell’Italia. Come Ai Weiwei ha il diritto di sentirsi cinese, io ho il diritto di sentirmi soprattutto europeo. Non è un caso che Ai Weiwei venga dalla Cina con una consapevolezza messa a dura prova. E non è un caso che, in altre occasioni, lui abbia parlato dell’Europa chiedendosi perché non si svegli. Anche io mi domando: perché l’Europa e i vecchi mondi non si svegliano culturalmente, per davvero? La politica qui non c’entra: mi riferisco a qualcosa che attinge al sostrato culturale. D’altra parte qualche artista americano ha fatto ricorso al patrimonio dei Navajo e di altri nativi. Perché non dobbiamo farlo noi, con la nostra tradizione? Perché vergognarci di avere una storia? Questo non ha niente a che vedere con un pensiero reazionario: è esattamente il contrario.
AI WEIWEI — Sono d’accordo con Emilio. L’Europa ha una memoria storica più profonda degli Stati Uniti, data dalla religione, dalla cultura, da abitudini di vita. Gli americani non hanno questa memoria e guardano sempre avanti. In entrambi i casi sorgono dei problemi: quando non si ha una memoria a cui appoggiarsi è impossibile dare qualcosa all’umanità; d’altra parte non bisogna essere troppo legati ai significati del passato, altrimenti si rischia di restare in una comfort zone che impedisce il cambiamento, che non ti fa porre domande, e non si ha quel senso della crisi necessario per l’arte.
Quando avete preso coscienza del ruolo del pubblico?
AI WEIWEI — (Ride) In realtà non credo che le mie opere siano importanti o, perlomeno, che siano importanti per il pubblico. Penso semplicemente di essere fortunato a potermi esprimere ma vivo tutto questo come una necessità mia.
EMILIO ISGRÒ — Quando mi chiedono perché faccio l’artista, rispondo sempre che lo faccio per il mio piacere. Perché mi piace farlo. Tuttavia questo non significa compiacere. Forse ho aperto un dialogo con il pubblico quando erano gli altri a dirmi cosa fare. Io non li ascoltavo fino in fondo, tuttavia riflettevo sulle loro parole. Quando le persone capiscono i meccanismi profondi del tuo lavoro, allora puoi proseguire per una strada più libera e meno ingombra da pregiudizi. Per esempio il pregiudizio che l’arte sia qualcosa di difficile: non è vero, io sono per un’arte inclusiva che non escluda programmaticamente nessuno.
AI WEIWEI — Attenzione. Il giudizio e l’apprezzamento del pubblico verso un’opera d’arte non è importante. Penso a Vincent van Gogh, fra tanti. In vita non fu considerato un vero artista, ed è la prova che non sia il giudizio del pubblico a conferire valore all’opera.
EMILIO ISGRÒ — Non vorrei essere frainteso, perché sono d’accordo con Ai Weiwei. Il piacere, ripeto, è contagioso. Ma quando poi, alla fine, il pubblico arriva comunque, il problema si pone in termini diversi: bisogna farci i conti, senza però confonderlo con il marketing. Meglio essere figli della società che del mercato, che della società è solo una parte, importantissima finché si vuole, ma solo una parte.
AI WEIWEI — Mantenere la libertà artistica significa non ascoltare le sirene.
In «Autocurriculum» Isgrò parla di «arte come semina». Entrambi avete rappresentato semi: Isgrò il «Seme d’arancia» e il «Seme dell’Altissimo», opere monumentali, Ai Weiwei una celebre installazione alla Tate Modern con una moltitudine di semi di girasole. Ai Weiwei, l’arte è semina anche per lei?
AI WEIWEI — Ho creato più di 100 milioni di semi di girasole ma da nessuno di loro è nato un girasole. Sono semi morti... (sorride)
Magari qualcuno li conserva in casa, i semi di porcellana realizzati per l’installazione «Kui Hua Zi»...
AI WEIWEI — Chi lo sa, forse ne sboccerà un girasole.
Seminare arte. Che significa condivisione. E anche bottega, o un embrione di bottega. Che rapporto avete con chi lavora con voi?
EMILIO ISGRÒ — Un embrione di bottega c’è, ho collaboratori e assistenti dei quali sono soddisfatto, ma li ringrazio perché mi pongono continuamente dei dubbi. Che, sommandoli ai miei, producono un cortocircuito formidabile. L’opera che viene fuori alla fine non mi soddisfa perché non è quella che speravo e questo è un buon segno: significa che esce dalla routine.
AI WEIWEI — Per me non c’è un vero processo di creazione. L’opera accade. E quando accade ne sono tutti partecipi, ciascuno vi contribuisce.

Ai Weiwei, che ne è del suo studio a Caochangdi, alle porte di Pechino?
AI WEIWEI — Una parte è stata demolita dal governo e una parte è ancora operativa.
Lei vive in Europa, ora. In Cina può tornare?
AI WEIWEI — Penso che potrei tornare in Cina, non credo che sarei arrestato perché non ho pendenze giudiziarie ma non so se mi consentirebbero di lasciare di nuovo il Paese. Ora sto fisso in Portogallo ma vado spesso in Inghilterra, dove vive mio figlio. Ho comunque sempre lo studio a Berlino. E ho conservato la cittadinanza cinese.
Ha mantenuto rapporti con altri artisti cinesi, magari amici degli anni in cui a Pechino frequentò l’Accademia di cinema?
AI WEIWEI — Non più.
E legami con le comunità cinesi in Europa, nelle città in cui vive?
AI WEIWEI — No.
Isgrò, vorrebbe fare una domanda ad Ai Weiwei?
EMILIO ISGRÒ — Avevo dei pregiudizi su di te. Pensavo che non fossi del tutto sincero. Ho cambiato idea leggendo il tuo libro. Hai una grande onestà intellettuale che ti fa onore. Ho sbagliato ad avere pregiudizi. Ma, secondo te, da dove nascevano quei miei pregiudizi?
AI WEIWEI — (Ride) E quali erano questi pregiudizi?
EMILIO ISGRÒ — Il pregiudizio nei confronti di un certo tipo di artista, non verso tutti. Cioè l’artista che si preoccupa di costruire più la propria immagine che la propria opera. Ho cambiato idea, puoi stare tranquillo...
AI WEIWEI — In realtà un po’ mi spiace (ride) perché questo tuo pregiudizio è vero.
EMILIO ISGRÒ — Sei molto onesto intellettualmente! Bravo, così deve essere un artista... Ma suscitare troppo il mio entusiasmo non ti conviene.
AI WEIWEI — Grazie! (ridono)
E lei, Ai Weiwei, ha qualcosa da chiedere a Isgrò?
AI WEIWEI — (Sorride) C’è questa diatriba sull’origine della pasta... Gli italiani insorgono quando sentono dire che l’abbia portata Marco Polo dalla Cina: mi pare che la pasta sia una delle due cose che agli italiani non si possono toccare, l’altra è la mamma. È vero? E perché?
EMILIO ISGRÒ — È vero, anche io soffro della mancanza della mamma. Mamma che in Italia viene sostituita dalle mogli, che poi soffrono molto perché vorrebbero essere amiche, confidenti e soprattutto amanti. È così anche in Cina?
AI WEIWEI — Mi hai risposto sulla mamma ma non sulla pasta...
EMILIO ISGRÒ — La pasta è insostituibile. Noi italiani abbiamo anche la pizza, ma la pasta è migliore. Pazienza se fa ingrassare.