Il Messaggero, 26 marzo 2023
Intervista a Cludio Bisio
Questa è la storia di tre uomini quasi gemelli. Due esistono veramente, il terzo è un personaggio fittizio. Il primo si chiama Claudio Bisio, è nato il 19 marzo del 1957 a Novi Ligure e, come è noto a tutti, fa l’attore. Il secondo, Francesco Piccolo, è casertano, 59 anni, e di professione (anche questo è risaputo) fa lo scrittore. La terza figura, invece, è immaginaria: scaturita dalla penna di Piccolo, che ha costruito su misura di Bisio (una sensibilità accesa che si è sempre nutrita di una forma sobria e uno sguardo incantato) il monologo La mia vita raccontata male che, con la regia di Giorgio Gallione, va in scena dal 30 marzo al 2 aprile al Teatro Brancaccio di Roma. Per l’interprete, come racconta nel corso di questa nostra conversazione, è l’occasione di svelare sé stesso attraverso l’effetto illusionistico di una autobiografia inventata. Nella cornice di un racconto apparentemente innocuo, va in scena la divertente, e aspra, diagnosi di una vita vissuta benissimo, anche nei suoi momenti di maggiore smarrimento.
Bisio, alla fine di quale vita parliamo?
«Il titolo farebbe pensare che si tratti della mia vita, ma a un certo punto dello spettacolo chiamo in causa Piccolo come corresponsabile. Siamo tutti abituati alle sue auto-fiction. A quel punto, si potrebbe pensare che si tratti della vita di Francesco raccontata da me».
E invece di cosa si tratta?
«Di una vita a metà tra la mia e la sua. Le storie di Francesco vanno a cucire una bellissima stoffa che io poi adatto a mia misura. Queste storie sono in parte biografiche, in parte inventate».
Ci sono delle risonanze interne tra le due partiture?
«Assolutamente sì. Tutte e due abbiamo avuto un passato politico, entrambi abbiamo avuto delle storie sfigate, sia lui che io siamo innamorati da una vita delle nostre mogli. Insomma, le situazioni che Piccolo descrive sono, al 90 per cento, anche le mie».
Nel cucire il costume su misura, cosa ha messo di suo?
«A un certo punto, per esempio, si dice che il narratore ha interpretato Brecht».
Stiamo parlando dei suoi anni alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano?
«È lì che è iniziato tutto».
Ha conosciuto anche Strehler?
«Erano anni in cui lui non insegnava più, ma per un puro caso non ho recitato ne La Tempesta messa in scena da Strehler».
Cosa rappresenta il palcoscenico per lei?
«La mia comfort-zone».
Molti artisti dicono esattamente il contrario: faccio teatro per stare scomodo.
«Io invece a teatro sto come a casa».
Che tipo di dialogo instaura in scena con i musicisti?
«Con Marco Bianchi e Pietro Guarracino (che suonano le musiche originali di Paolo Silvestri), c’è un botta e risposta continuo. Però tra noi c’è una differenza».
Quale?
«Siccome loro sono giovani, dopo teatro vanno a cena. Io, invece, mi ritiro in albergo».
A quale artificio retorico si riferisce la vostra storia raccontata male?
«È una citazione del fumetto di Gipi, La mia vita disegnata male».
Quali libertà vi siete presi?
«Innanzitutto, non c’è coerenza cronologica. E poi non tutto, di questa vita, è bella».
Cosa non è bello?
«C’è, per esempio, una scena che alcune donne non hanno amato. Racconta una serata finita male. Una ragazza invita a casa sua un uomo, fanno l’amore ma qualcosa va storto e lui se ne va».
Non si può arrivare a dire che tutti, uomini e donne, abbiamo vissuto almeno una volta nella vita, qualcosa di simile?
«È quello che volevamo dire, ma siccome è un uomo a narrarlo, l’effetto è un po’ spiazzante. Lui ha degli aspetti da carnefice».
Che tipo di musica accompagna questa scena?
«Una musica alla Round Midnight».
Con Francesco Piccolo potete dirvi amici?
«Penso proprio di sì».
Questo tipo di racconto la obbliga a fare i conti con la sua vita. C’è qualche stanza che non ha voluto aprire?
«Indubbiamente, questo è uno spettacolo catartico. Io non vado dall’analista ma ci vorrebbe sicuramente un analista per spiegare certe cose. Apparentemente, essendo io un ottimista, non ho niente di rimosso. Ma mi rendo conto, nell’istante stesso in cui lo dico, che non è possibile».
Oltre a Piccolo, quali autori secondo lei raccontano bene le storie di vita?
«Dostoevskij è un grande punto di riferimento. Poi, Pennac e Calvino. Stanno tutti sul mio comodino».
A 66 anni debutta nella regia cinematografica. L’aveva previsto?
«In realtà, no. È stata la storia a prendermi. Quando ho letto L’ultima volta che siamo stati bambini di Fabio Bartolomei, ho capito che quella era la storia che volevo raccontare al cinema. Adesso sono in fase di montaggio. Il film uscirà in autunno».
Descrive il mondo visto dai ragazzini?
«Sì. Siamo nel 1943 a Roma, quattro bambini giocano insieme. Uno di loro, che è ebreo, viene deportato ad Auschwitz. Gli altri tre attraverseranno l’Europa a piedi per cercare di convincere i tedeschi che si sono sbagliati».
Un nuovo film che ricorda “La vita è bella”?
«Non l’ho detto io».