La Stampa, 26 marzo 2023
Intervista a Javier Cercas
«Come cittadino mi schiero e sono pro sistema: difendo strenuamente la nostra seppur imperfetta democrazia. Ma come romanziere scelgo l’ambiguità e sono anti sistema: nelle mie pagine voglio rovesciare certezze, spingere il lettore fuori dalla sua zona di agio, presentargli assassini e impostori».
Javier Cercas si porta dentro da sempre questi due personaggi, il cittadino («preferisco questa definizione a quella di intellettuale») e il romanziere, impegnati in una «perenne e spietata battaglia che nessuno deve vincere».
E allora Cercas alimenta «questa tensione feconda» da cui il romanziere trae la complessità e il cittadino l’audacia. E si esprime nei romanzi (spesso con una forte attenzione per la Storia), da Soldati di Salamina ad Anatomia di un istante, L’impostore o Terra Alta, e nei commenti sui giornali o negli interventi pubblici. Il suo ultimo libro, Colpi alla cieca (pubblicato da Guanda come il resto della sua opera), riunisce più di vent’anni di scritti e discorsi sulla crisi della democrazia occidentale, l’Europa, la guerra. E da qui partirà il dialogo che terrà con Nicola Lagioia il 29 marzo in apertura del festival “Incroci di civiltà”.
Come prosegue la sua «battaglia spietata»? Pensa che gli scrittori, in quanto cittadini, debbano schierarsi?
«Credo che la politica, termine che non per nulla viene da polis, città, sia troppo importante per lasciarla nelle mani dei politici: è di tutti noi. Io parlo per me, e sento il dovere di impegnarmi. E di coltivare il dualismo romanziere-cittadino. Nessuno dei due deve prevalere perché se vince il primo il cittadino può diventare complice dell’ingiustizia, o peggio ancora del crimine, se vince il secondo i romanzi diventano pedagogia, propaganda, e la letteratura perde la sua utilità».
Ha detto che la letteratura è piacere e conoscenza.
«E c’è qualcosa di più utile del piacere e della conoscenza? Qualcosa che ti fa vivere in modo più ricco e intenso? Io credo di no, e che dovremmo cambiare la nostra idea di utilità. La letteratura è un gioco, dicono alcuni. Sì, un gioco in cui devi mettere tutta la tua vita. Le sue verità sono ambigue, contraddittorie. La letteratura ti fa incontrare Raskòl’nikov, Michael Corleone, Riccardo III. Ti arricchisce perché ti aiuta a capire, non a giustificare lo sottolineo, e così ti protegge. Io nei miei romanzi ho voluto capire fascisti e impostori. L’unico modo di combattere il male è capirlo. Non combatti gli estremisti islamici, o Putin, se non li capisci. Il romanzo come l’ha creato Cervantes è una potente arma di distruzione dei totalitarismi».
L’Europa e il romanzo, scrive in Colpi alla cieca, si somigliano perché il loro futuro e la loro forza risiedono nell’accogliere altre identità senza smettere di essere se stessi. L’Europa di oggi va verso questa direzione o al contrario?
«Nonostante ci siano, a partire dal 2008, movimenti di chiusura e un risorgere di populismi e nazionalismi, molto visibile in alcuni Paesi, io credo che oggi l’Europa sia più forte che mai. Che la Brexit, che si è dimostrata un disastro soprattutto per i britannici, la pandemia e la guerra in Ucraina, in cui, anche se non sufficientemente, abbiamo reagito insieme, abbiano rafforzato l’Ue, nonostante le apparenze. Penso che l’Europa debba imitare il romanzo perché il romanzo è progredito quando ha assimilato altri generi – il saggio il giornalismo la poesia – arricchendosi senza perdere la propria identità. Il romanzo è contrario alla purezza, è meticcio. E così dev’essere l’Europa se vuole andare avanti».
Come stanno affrontando l’Ue, l’Italia e la Spagna il fenomeno delle migrazioni?
«È un problema che non si risolve chiudendo le frontiere, è ridicolo pensarlo. Né con la demagogia della Brexit. In spagnolo diciamo: “No se le pueden poner puertas al campo” (Non si possono mettere porte alla campagna). Vivere in Europa è un privilegio, è un posto attrattivo. Queste persone fuggono da guerre e fame, e noi abbiamo il dovere di appoggiarle. Anche io sono un immigrato. La mia famiglia si è spostata in Catalogna come tante altre del sud che sognavano un futuro migliore per i propri figli. Così è nata la Catalogna moderna, e anche l’Italia moderna. Non sono ingenuo, non dico che tutti i migranti devono entrare in modo disordinato. Dico però che queste persone vogliono venire qui e che bisogna capire come farlo e organizzarlo bene. La forza dell’Europa non è solo politica ed economica, è anche morale: e morale significa che non si può lasciare morire la gente nel Mediterraneo come succede oggi, è inaccettabile. Ma c’è anche una ragione pratica, nonostante quello che dice l’estrema destra».
Quale?
«Abbiamo bisogno di queste persone, che ovviamente non vengono qui per delinquere, è una paranoia xenofoba sostenerlo. Rendono il nostro continente più ricco, come hanno fatto le persone che dal sud della Spagna e dell’Italia si sono spostate al Nord. Ma è importante sottolineare che questo è un problema dell’Europa, non dell’Italia o della Spagna. Le frontiere sono europee. E serve una politica comune, sull’asilo ma non solo».
Ha scritto che il tema del nostro tempo è «la crisi della democrazia» e che «il populismo globale di oggi è la maschera postmoderna del totalitarismo degli Anni 30». Vede rischi per la democrazia?
«C’è un verso di una canzone di Bob Dylan che mi piace molto: “Chi non è occupato a nascere è occupato a morire”. Per la democrazia è la stessa cosa: va avanti o va indietro, e la direzione dipende da noi. La crisi è iniziata nel 2008, e l’unico paragone possibile è quello con la crisi del 1929. Oggi c’è il nazionalpopulismo, allora il fascismo. La Storia mette maschere diverse. Il fascismo era apertamente contro la democrazia. Che oggi invece viene minata da dentro, con un meccanismo più perverso, sia in Europa sia in America. Basta pensare all’assalto a Capitol Hill del 2021: un attacco alla democrazia fatto da chi diceva di agire nel nome della democrazia. La democrazia va difesa, anche in Europa».
Un’Europa in cui si combatte una guerra. Pensa ancora che sia impossibile dirsi pacifisti?
«Io sono pacifista ma ci sono momenti in cui esserlo è impossibile. Gli ucraini hanno scelto di difendersi come i repubblicani spagnoli nel 1936 e allora è giusto moralmente e politicamente che l’Europa democratica li appoggi, e li ringrazi, come avrebbe dovuto fare, e non ha fatto, allora. Trovo incredibilmente cinico che la sinistra, in Spagna ad esempio, non voglia aiutare gli ucraini. La guerra civile spagnola fu il prologo della Seconda guerra mondiale. Il pericolo che questo si ripeta non è sparito ma la differenza è che oggi l’Europa non ha abbandonato l’Ucraina. Credo che in futuro gli storici inseriranno questa guerra nel contesto della crescita del nazionalpopulismo. Putin ha appoggiato tutte le manifestazioni del nazionalpopulismo in Europa e in America. Oggi la lotta è fra democrazia e autocrazia. E il simbolo di questo è Putin, dietro cui c’è Xi. C’è un bipolarismo come negli anni della Guerra fredda, e dopo il 2008 la democrazia è più fragile, anche in Europa».