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 2023  marzo 26 Domenica calendario

Confessioni di Gabriele Salvatores

Gabriele Salvatores, com’è arrivato al cinema? Tutto nasce da una diagnosi sbagliata, racconta al Bif&st di Bari, rispolverando un fatto poco noto. Nel 1980, a trent’anni, gli dissero che aveva la leucemia. «Ero ricoverato in ospedale, il medico mi disse che avevo 4 o 5 anni di vita. Per fortuna non era vero».
Era policitemia. Ma quella valutazione sbagliata cambiò le sue priorità. «Mi dissi, se esco da qui faccio quello che mi piace veramente, il cinema. Ho sacrificato la mia vita privata, e il desiderio di avere un figlio. Hitchcock una volta disse: per la gente un film è solo un film, per me è la vita intera. Oggi non ne sono sicuro al cento per cento. Ma è vero che il cinema rende la vita più bella. È diventato il sostitutivo della realtà, un altro modo di vivere. La realtà a volte è deludente, diceva Fellini. E ci si rifugia in un film, che fai finire come vuoi tu. Nella vita non c’è un copione».
Primo suo film, Sogno di una notte d’estate, da Shakespeare. «Non l’ha visto nessuno, solo mio padre, mia madre e una delle mie sorelle. La più intelligente non volle vederlo. Non conoscevo quei tempi di attesa lunghissimi. Mi spaventarono. L’ansia e la paura mi sono rimaste».
È arrivato in cima alla montagna vincendo l’Oscar con Mediterraneo, il film che gli ha dato la patente dell’eterna giovinezza, si stenta a credere che a luglio compirà 73 anni. «Fu una botta di fortuna, c’era un film straniero migliore del mio. Dopo, avrei potuto fare Oceano Indiano, Oceano Atlantico... In America mi proposero il remake, la stessa storia con i soldati Usa in un’isola giapponese. Questo mi spinse a dire no. La statuetta, quello strano signore liscio, nudo e senza peli, mi diede una specie di superpotere che non mi aspettavo, eppure io ero la stessa persona del giorno prima della vittoria, che non aveva insegnato a fare meglio il cinema. Grazie all’Oscar ho potuto lavorare su progetti che mi rimettevano in gioco». Dopo qualche anno fece un film di fantascienza, sperimentale ma di grande successo, come Nirvana, sui prodromi dell’intelligenza artificiale. «In tv hanno chiesto a una macchina tecnologica come ricreare un’opera d’arte, ed è venuta una cosa improponibile su una donna dal sorriso enigmatico con un paesaggio sullo sfondo». La Gioconda. «Per fortuna la macchina non ha sentimenti», dice Salvatores, che ora rivà alla sua gioventù negli Anni ’70, che di sentimenti era piena. «Il Teatro dell’Elfo è l’unica utopia realizzata nella mia vita. A Tokyo o a Berkeley, dei miei coetanei provavano a fare le stesse cose con un sogno: cambiare il mondo. Certi problemi sono rimasti uguali ma insieme abbiamo ottenuto alcuni risultati. Oggi a 20 anni hai voglia di essere isolato davanti al computer che ti illude di essere in compagnia di altri».
Nirvana è la ragione dell’incontro di Salvatores a Bari in due tappe. La seconda si svolge oggi e ha come argomento il suo nuovo film, Il ritorno di Casanova, con Toni Servillo, che per certi versi evoca Mastroianni in 8 e ½ĉ. Un regista nell’avanzante vecchiaia non accetta il suo declino, e come ultima opera racconta l’ultima avventura del grande libertino, come la disegnò Schnitzler nella sua novella. Un feroce scontro tra amore e morte, mentre gli occhi lascivi e compiacenti delle sue amanti andavano lentamente spegnendosi.