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 2023  marzo 26 Domenica calendario

Eleonora Abbagnato è tutta fuoco. «Sono siciliana e sono un vulcano». Fino al 2021, è stata l’unica ballerina italiana (insieme con Carlotta Zambelli, ma in epoche remote) a diventare étoile all’Opéra di Parigi, che è il luogo dove è nato tutto, perché fu Luigi XIV a istituire la prima Accademia di danza


Eleonora Abbagnato è tutta fuoco. «Sono siciliana e sono un vulcano». Fino al 2021, è stata l’unica ballerina italiana (insieme con Carlotta Zambelli, ma in epoche remote) a diventare étoile all’Opéra di Parigi, che è il luogo dove è nato tutto, perché fu Luigi XIV a istituire la prima Accademia di danza. Lì si imparano lo stile, le posizioni, l’eleganza, il gusto, il vocabolario che nella danza è francese. Sul palco, gli incontri della sua vita sono due: Pina Bausch, che a 17 anni la scelse per La Sagra della Primavera, e soprattutto Roland Petit. Dal 2015 è direttrice del corpo di ballo dell’Opera di Roma. Ma continua a ballare, sarà in un gala il 20 giugno al Ravenna Festival, stella tra le stelle. «Le mie ballerine mi chiamano Wonder Woman».Com’è entrata la danza nella sua vita?
«Mamma aveva un negozio d’abbigliamento a Palermo e non avendo dove lasciarmi, al piano di sopra c’era la scuola di danza di Marisa Benassai, mi lasciava lì. A 4 anni ero già attaccata alla sbarra».
E poi?
«A 10 anni ho iniziato uno stage importante a Montecarlo, all’epoca era una grande scuola, frequentata da Nureyev. Poco dopo Marisa mi disse che a Palermo veniva Roland Petit, il grande coreografo, per La Bella Addormentata. Cercava una bambina. A 14 anni sono entrata alla scuola dell’Opéra di Parigi. Unica italiana. Il livello era molto alto, la direttrice, Claude Bessy, mi disse, vediamo se resisti. Fu Carla Fracci a incoraggiarmi a studiare fuori».
Ha sofferto la solitudine?
«Sì certo, sono partita col cartellino col mio nome appeso al collo. Ma piangevo soltanto quando la sera non riuscivo a parlare al telefono con mia madre. Non c’erano i cellulari. Ricordo come fosse oggi la cabina telefonica. Io ero socievole, chiacchieravo con le altre allieve, mi attardavo nei corridoi. Così ero sempre l’ultima in fila indiana davanti alla cabina. E non riuscivo sempre a telefonare. Alle nove di sera dovevamo spegnere la luce, tutte a dormire. Quando racconto la vita che facevo ai miei figli, paragono la scuola dell’Opéra di Parigi a un collegio, che non va vissuto come una punizione. Io ho dei ricordi splendidi».
Il cigno nero è il film che ci ha mostrato che non sono tutte rose e fiori.
«Non amo quel film, non ha fatto bene alla danza, non fa innamorare i giovani al balletto. E dice delle falsità, succede una volta su mille che il maitre si innamori della ballerina. Ma è vero che la danza è un mondo a parte, pieno di ripicche e gelosie esasperate. Anche io le ho vissute».
Le mettevano il dentifricio nelle scarpette?
«Questo no. Ma ricordo che a un concorso due ragazzine entrarono in camerino e mi dissero per scherzo che non mi avevano preso. La mia maestra di Parigi mi bucava i glutei con l’ago perché inarcavo troppo la schiena, ce l’ho molto elastica. I grandi maestri entravano in classe col bastone: non per darcelo in testa, era il senso dell’autorità. Comunque intimorivano. Era un’altra epoca, oggi i maltrattamenti non sono lontanamente possibili, gli allievi, soprattutto in America, non puoi nemmeno toccarli fisicamente che ti arriva una denuncia. Ed è esagerato, il rigore devi spiegarlo nel modo giusto. Oggi una direttrice di ballo deve essere anche psicologa. Gli elementi negativi non sono gli allievi ma le madri. Ci sono protagonismi esagerati».
Cosa le è successo?
«All’Opera di Roma ho ricevuto lettere anonime. Poi ho avuto minacce di morte nei giorni in cui, usando dell’acido, bruciarono la faccia del direttore del Bolshoi. Non ero a Mosca ma ne rimasi emotivamente provata. Quando ero étoile a Parigi arrivò una lettera che diceva: liberiamoci della mafiosa siciliana».
Lei vive in una piccola tribù. Ha due figli, Julia di 10 anni e Gabriel di 8; più i due figli che Federico Balzaretti ha avuto nel primo matrimonio, Lucrezia ne ha 17 e Ginevra 14.
«Di Lucrezia e Ginevra non sono la mamma ma le ho cresciute io. È una storia particolare, Federico ha avuto l’affidamento esclusivo».
E la loro mamma biologica?
«Aveva altro da fare».
Vede le figlie?
«No».
Com’è crescere figli non suoi?
«È più difficile, hai il pensiero che magari fai qualcosa di male, o che fai mancare loro qualcosa. Le amo, è come se fossero figlie mie. Ma se non studiano mi arrabbio, se si comportano male le sgrido e tolgo il cellulare. Ho sempre amato i bambini, da piccola giocavo a fare la mamma, mio papà aveva sei fratelli e sorelle, famiglia siciliana numerosa».
La chiamano mamma?
«A me non piace che mi chiamino così, però sì la piccola mi chiama mamma, la grande mi chiama Ele. Aveva un anno e mezzo quando l’ho vista la prima volta. È legatissima a Federico, che è un padre fantastico. Ed è stato sincero fin dal primo giorno. La prima cosa che mi ha detto, il giorno che ci siamo conosciuti (attraverso Nino, un amico comune che fa il parrucchiere), è che la sua priorità erano le figlie. Io ero guardinga, era diventato padre così giovane, a 21 anni... Ho saputo dopo che per le figlie aveva rinunciato a trasferirsi al Milan e al Napoli. Federico lo risposerei ogni mese».
Il calcio le interessa?
«Ha sempre fatto parte della mia vita, mio padre era presidente del Palermo e mio zio direttore sportivo del Catania, mio nonno materno giocava».
E i suoi due figli?

«Siamo fortunati, tra loro quattro si amano, non c’è nessuna gelosia. Gabriel gioca a calcio nei pulcini della Roma, Julia è alla scuola di danza dell’Opera di Roma. Non è originale come percorso. Ha un carattere forte, è generosa, sincera, diretta. Ci somigliamo. Me la portavo in tutti i teatri, non so se poi farà la ballerina. Si è già lamentata di non essere al centro del palco. Le ho risposto che non lo ero nemmeno io, ho lottato per esserlo».
Ma essere al centro del palco fa sentire soli?
«Sì, esiste la solitudine dei numeri primi. A me prendeva quando dovevo ballare sapendo di non essere al top, o di dover interpretare ruoli che non erano così adatti a me. E tutti gli occhi sono puntati su di te, l’étoile. Gli altri mi vedevano così, però io certe sere davvero non mi sentivo pronta».
Con Federico è stato un colpo di fulmine?
«Secondo il nostro comune amico, siamo simili nel carattere. Vero, abbiamo gli stessi valori, è un uomo d’altri tempi, ma lui per temperamento è più riservato, io sono ordinata in maniera ossessiva. Se qualcuno mi sposta un oggetto vado fuori di testa, i vestiti nei cassetti sono disposti per colore, il rosso col rosso e via dicendo. Sono maniacale anche nelle docce: ne faccio tre al giorno».
Il primo incontro con Federico?
«È avvenuto a cena da me a Palermo, c’era anche mio padre. Ci siamo frequentati, dopo un anno mi ha chiesto la mano, nella mia casa di Parigi, a Montmartre. Aveva acceso non so quante candele. Io temevo che prendesse fuoco tutto». Ride: «Ho detto subito sì, hai visto mai che non me lo chiedeva più».
Cosa la colpì di Federico?
«Una lettera. Quando morì mia nonna paterna, Eleonora, mi scrisse di capire la mia sofferenza, e che la famiglia era un punto fondamentale per lui. Ora fa il dirigente sportivo alla squadra di Vicenza, io vivo a Roma con i figli. Ci vediamo il fine settimana. Il problema è che non sono una che ama il telefono. Ci mandiamo tanti messaggi, anche per farci forza. Una situazione non facile».
Ogni tanto lei fa incursioni in altri mondi.
«Tutto quello che serve per diffondere la danza. Ho fatto l’attrice per Ficarra e Picone; in tv, Amici, Sanremo, Ballando con le stelle; ho partecipato a un videoclip di Vasco Rossi, lo ricordo seduto in un angolo, discreto, quasi intimidito. Non me l’aspettavo, mi ha sorpreso».
Ci sono ancora pregiudizi sull’omosessualità nella danza?
«Meno, ma non se ne vanno mai via del tutto. All’estero sono più avanti».
Riti e scaramanzie prima di andare in scena?
«Se non dormo venti minuti subito prima dello spettacolo, non riesco a ballare».
Sta parlando al presente, come se fosse ancora Giselle... Il suo addio alle scene di Parigi com’è stato?
«Lungo, direi che si è consumato in tre atti. Il primo anno c’era la pandemia e non si ballava. L’anno successivo in Francia c’erano gli scioperi dei gilet gialli. Il vero addio c’è stato il 30 giugno 2021, quando ho compiuto 42 anni. L’età della pensione all’Opéra di Parigi. Ho fatto una festa invitando parenti, amici, vecchi partner, insegnanti».
In Italia a che età si smette?
«A 46. Mi chiede se sono troppi? Un po’».
Com’è dirigere un corpo di ballo nel nostro Paese, dove i teatri per la danza sono sempre pieni ma riconoscibilità sociale pari a zero?
«A Roma è stato faticoso perché l’Opera veniva da un periodo difficile. Siamo ripartiti da zero, svecchiando, togliendo polvere al repertorio. Ma è interessante, c’è tanto da costruire, i grandi coreografi quando vengono non se ne vogliono andare. Sono riuscita a creare un corpo di ballo come volevo. La danza è la Cenerentola ma ha i più grandi successi, e con un pubblico giovane. Il sovrintendente, Francesco Giambrone, palermitano come me, mi conosce da quando ero bambina, quando parlo mi capisce, è una persona di grande cuore».
Ma è difficile smettere?
«Sì, molto, da un giorno all’altro ti chiedono di restituire la chiave della stanza in cui ci sono i ricordi di una vita».
Come si vede tra dieci anni?

«Mi è difficile pensare a una situazione senza un teatro».