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 2023  marzo 26 Domenica calendario

Perché alcuni paesi sono poveri e altri no

«Il mio momento della verità». Così Stefan Dercon, professore a Oxford e già capo economista del Department for International Development nel Regno Unito, definisce la circostanza in cui, dopo un viaggio in Cina e nel Far East asiatico, realizzò che in quelle terre non aveva mai incontrato la povertà estrema osservata altrove, in Burkina Faso, in Etiopia, in alcune regioni dell’India. Inizia così la sua ricerca di una risposta a questioni sempre attuali e cruciali per la storia dello sviluppo. Perché alcuni Paesi diventano ricchi e altri no? Perché Paesi simili hanno risultati divergenti? Perché, innanzitutto, hanno forme diverse di indigenza estrema?
Che cosa accomuna i Paesi che hanno “vinto” la scommessa sulla crescita? I fattori condivisi individuati da Dercon sono: stabilità macroeconomica, corretti investimenti in infrastrutture, sanità e istruzione, prudente gestione delle risorse naturali, norme ragionevoli per il settore privato che consentano al mercato di svolgere un ruolo centrale, supporto dello Stato nel commercio internazionale, assenza di favoritismi, programmi mirati per ridurre la povertà. Il gruppo dei “vincitori” è variegato: accanto a Corea del Sud, Taiwan, Tailandia, Malesia e Indonesia, più di recente sono emersi India, Bangladesh, Etiopia e Ghana.
In Asia il cambiamento socio-economico ha trasfigurato intere regioni. Eppure, negli anni 80, anche la Cina era afflitta da plaghe di profonda miseria. In pochi decenni, Pechino è riuscita a togliere oltre mezzo miliardo di persone dalle condizioni di povertà estrema. Singapore, Corea del Sud e Taiwan hanno raggiunto il gruppo di testa dei Paesi più ricchi al mondo, mentre India, Vietnam, Bangladesh hanno registrato una rapida crescita e un declino dell’indigenza diffusa.
Invece l’Africa ha continuato ad avere situazioni di sofferenza e percorsi di sviluppo interrotti o regrediti. Durante la Guerra Fredda, il continente è stato terreno di confronto e di scontri sanguinosi. All’inizio degli anni 90 in Etiopia, cacciato lo spietato regime sostenuto dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati, quattro etiopi su cinque vivevano in condizioni di gravissima indigenza. Mentre in Ruanda il genocidio dei Tutsi e l’uccisione sistematica degli Hutu moderati spazzò via speranze di pace e rapida prosperità. Tra il 1990 e il 2018, il reddito medio è raddoppiato in Ghana, e in Etiopia è triplicato fino alla nuova guerra civile nel Tigrè. In altri Paesi come Angola, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e Madagascar la crescita del reddito medio è stata modesta e il numero dei poveri è aumentato costantemente.
Nel 1990 la Nigeria e l’Angola avevano un Pil pro capite più elevato di quello del Bangladesh, del Vietnam, della Cina o dell’India. In seguito, il contrasto alla povertà diffusa è stato inefficace e irrilevante. La Nigeria ora conta più persone in condizioni di estrema indigenza di qualsiasi altra nazione africana; potrebbe anche aver superato l’India (che ha il quadruplo di popolazione) come Paese con la più vasta povertà del mondo.
Qual è allora il motore primo dello sviluppo? Secondo Dercon, esso si basa su un “accordo per lo sviluppo” delle élite del Paese, su un impegno di fondo da parte di coloro che all’interno della società civile, dell’economia e della politica prendono o possono influenzare le decisioni nevralgiche. I presupposti per il successo di un siffatto contratto sono tre. Primo, accordi politici ed economici duraturi tra le élite per iniziare in condizioni di pace e stabilità, perché il conflitto e l’instabilità restringono gli orizzonti del processo decisionale politico ed economico. Secondo, uno Stato maturo e sensibile capace di trovare un equilibrio fra ciò che dovrebbe essere fatto e ciò che si può fare. Terzo, capacità di imparare dagli errori e di correggerli. Non esiste un’unica prescrizione in sede politica ed economica per avviare e sostenere la crescita. Devono essere le élite a scommettere sullo sviluppo, mettendo a rischio la propria posizione e gli interessi acquisiti.
Un accordo per lo sviluppo è molto più che la sottoscrizione ufficiale degli obiettivi di sviluppo sostenibile. È un contratto implicito tra coloro che possono far decollare lo sviluppo e assume forme molteplici. In Cina, il Partito Comunista ha cercato di legittimare il proprio potere, dopo il 1979, con i progressi compiuti nella crescita economica e nella sicurezza alimentare. Alla fine degli anni 90, in India l’élite politica e la leadership economica si sono impegnate trasversalmente per la liberalizzazione graduale dell’economia. Il Ghana ha registrato un impegno ripetuto per la pace con il trasferimento del potere attraverso elezioni che offrissero stabilità.
A giudizio di Dercon, questi esempi dimostrano che i Paesi in via di sviluppo non debbono necessariamente assumere una forma autoritaria per realizzare un processo di crescita. Perché le élite economiche, politiche, tecnocratiche e burocratiche sono “funzionali”: il modo in cui agiscono conta più del sistema politico in cui operano o hanno raggiunto il loro status di élite.
Restano aperte questioni nevralgiche. Democrazie e autocrazie, dunque, si equivalgono ai fini dello sviluppo? Come avviene il cambiamento? Come si ottiene e si sostiene un accordo di sviluppo? Quand’è che un’élite scommette su un futuro di crescita e di sviluppo mettendo in gioco i propri interessi consolidati? E quale ruolo giocano la cooperazione e gli aiuti internazionali in un patto di sviluppo? In ogni Paese, il potere delle élite si intreccia con le strutture internazionali e gli affari delle élite economiche e politiche dei Paesi ricchi. Le differenti traiettorie di status internazionale fra i Paesi in via di sviluppo emersi, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), mostra quanto contino le scelte e la visione delle élite nazionali.
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Gambling on Development. Why Some Countries Win
and Others Lose
Stefan Dercon
Hurst&Company, pagg. 360, £ 25