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 2023  marzo 25 Sabato calendario

La terza destra

Di che pasta è fatta la destra oggi al governo dell’Italia? Si sta evolvendo verso una posizione nazional-conservatrice di stampo europeo, o conserva, oltre alla Fiamma nel simbolo, forti residui del passato neofascista? Il politologo Salvatore Vassallo ha affrontato il problema, con il collega Rinaldo Vignati, nel libro Fratelli di Giorgia (il Mulino). Lo abbiamo messo a confronto con altri due studiosi della destra: lo storico Roberto Chiarini, già docente dell’Università Statale di Milano, e il politologo Piero Ignazi dell’Università di Bologna.

Quanto pesa l’eredità del Movimento sociale (Msi) nella cultura e nelle scelte di Fratelli d’Italia?
ROBERTO CHIARINI — Sul piano del programma si è verificato un progressivo distacco dal lascito del Msi, che è giunto quasi alla rottura con l’ascesa di Giorgia Meloni alla guida del governo: il suo sovranismo è una versione molto edulcorata del nazionalismo missino. Ma nella classe dirigente di FdI c’è un’evidente linea di continuità con il Msi. Siamo alla terza generazione di una comunità politica che si è sentita emarginata dal «regime antifascista» e ha mantenuto l’orgoglio di rappresentare un’alternativa. In fondo, l’intento di proseguire quella tradizione è stata la ragione principale per cui è nato FdI, nel momento in cui si staccò dal Popolo della libertà di Silvio Berlusconi, nel quale era confluita Alleanza nazionale.
PIERO IGNAZI — FdI è il terzo partito di una filiera di estrema destra che parte dal Msi e prosegue con An. Alleanza nazionale si pone inizialmente in forte continuità con il passato missino, poi il suo leader Gianfranco Fini opera un allontanamento su cui però la base non lo segue. Più tardi a determinare la nascita di FdI non è tanto il recupero dell’identità neofascista quanto la volontà di differenziarsi da Berlusconi per conquistare spazio nel centrodestra. È con il Congresso di Trieste, tenuto nel 2017, che FdI si radicalizza e si riavvicina alla tradizione autoritaria del Msi: basti pensare alla richiesta di eliminare il reato di tortura per non legare le mani alla polizia negli interrogatori.

Ora però Meloni sembra tornata sui suoi passi.
PIERO IGNAZI — Da quando ha sentito profumo di potere, ha operato con molta abilità un annacquamento delle istanze più radicali. Ma quando nella conferenza stampa di fine anno le è stato chiesto del Msi, Giorgia Meloni lo ha definito un partito costituzionale e democratico. In realtà, come osservava Giovanni Sartori, si trattava di una forza antisistema, che contestava la legittimità della Repubblica e proponeva un’alternativa. Ricollegarsi direttamente alla storia missina, saltando l’esperienza di An, è una scelta molto significativa. Del resto Meloni, non molto tempo fa, elogiava Giorgio Almirante come proprio maestro e bollava Fini come «traditore dell’Idea». E la parola «Idea» nel gergo missino indica il fascismo. Penso si possa concludere che nel comportamento di Meloni non c’è alcuna manifestazione esplicita di rottura con il mondo da cui proviene.
SALVATORE VASSALLO — Misurare il grado di continuità fra Msi e Fratelli d’Italia è un po’ difficile, perché i programmi di entrambe le forze politiche sono stati nel tempo variabili e anzi, nel caso missino, evanescenti. Dal momento che il Msi era escluso da qualsiasi coinvolgimento nel governo, le sue proposte erano perlopiù enunciazioni ideologiche, per esempio l’ipotesi di una «terza via» corporativa tra capitalismo e socialismo in campo economico. Gli elementi più riconoscibili riguardavano soprattutto l’ordine pubblico: qui c’è una continuità solo nel senso che FdI, come tutti i partiti di destra, segue una linea securitaria e punitiva verso i devianti, ma ha abbandonato le proposte più tipiche del Msi come il ripristino della pena di morte.

E la cultura politica di fondo?
SALVATORE VASSALLO — Su quel terreno vedo due tratti di continuità con il Msi: l’enfasi sull’identità nazionale e un conservatorismo prossimo alle posizioni della cultura cattolica tradizionale in materia di famiglia e bioetica, anche se le biografie del gruppo dirigente in parte non coincidono con quel sistema di valori. Ma ci sono anche elementi di discontinuità: in economia, rispetto allo statalismo missino, in FdI osserviamo una ben maggiore attenzione al mondo della piccola impresa e del lavoro autonomo.

C’è poi il nodo istituzionale.
SALVATORE VASSALLO — Qui emerge il maggiore elemento di continuità fra i tre partiti della Fiamma, che è il presidenzialismo. Per il Msi era un tratto identitario forte: il progetto di fondare una nuova repubblica presidenziale venne indicato da Almirante come un punto irrinunciabile nel suo testamento politico al Congresso del 1987. Alleanza nazionale prima e FdI poi lo hanno rilanciato, sia pure in termini vaghi e dal punto di vista tecnico assai discutibili. Oggi viene ripresentato con maggiore plausibilità sulla scorta del lungo dibattito che si è sviluppato sulle riforme istituzionali.

Dati questi elementi di continuità, ha senso reclamare da Meloni una professione di antifascismo?
ROBERTO CHIARINI — Il punto è delicato. Per il mondo postmissino dichiararsi antifascisti significa compiere una ricusazione della propria identità. Penso che noi dobbiamo chiederci se FdI è un partito convintamente leale verso le istituzioni democratiche e lontano da ogni autoritarismo, non pretendere un’abiura pubblica del passato: sarebbe auspicabile, ma è difficile che avvenga. Intaccherebbe il sentimento identitario profondo della destra e il suo rapporto con la storia.

Niente da fare quindi?
ROBERTO CHIARINI — Quando il Pci decise di sciogliersi, non solo non condannò apertamente l’ideologia comunista, ma evitò di proclamarsi socialdemocratico, anche se di fatto lo era diventato. Rinnegare di fronte al proprio popolo una storia lunga settant’anni sarebbe stato ingestibile. Quando nacque An la base digerì, magari a fatica, le affermazioni di Fini circa la funzione positiva dell’antifascismo perché quel passaggio segnava lo sdoganamento, la tanto sospirata fine dell’emarginazione a cui i missini si sentivano condannati dai partiti dell’«arco costituzionale».


Oggi non se ne avverte più il bisogno?
ROBERTO CHIARINI — Si è verificato uno slittamento che ha progressivamente svuotato il senso di continuità. Protezionismo, corporativismo, nazionalismo non sono stati condannati o mandati in soffitta, ma tacitamente accantonati a mano a mano che An e poi FdI riuscivano a integrarsi nel gioco politico. Una grande virtù della democrazia è il modo in cui assimila i partiti antisistema e li induce ad abbandonare i loro caratteri estremisti, pur senza dichiararlo. È una forma di integrazione passiva che può durare a lungo, ma ha il vantaggio di favorire un superamento delle posizioni programmatiche e ideologiche radicali, anche quando rimane un richiamo sentimentale al passato.
PIERO IGNAZI — Sono in profondo disaccordo con Chiarini. Il paragone con il Pci-Pds non regge. Quel cambiamento fu il prodotto di un trauma, la caduta del Muro di Berlino, che costrinse i comunisti italiani a chiedersi: «Chi siamo?». Ne seguì un lavacro di oltre un anno, con i militanti che piangevano, si chiedevano disperati dove avessero sbagliato. Solo dopo un percorso molto sofferto il Pci, che fino al 1988 conservava ancora tratti antisistema, li superò definitivamente trasformandosi in Pds.

Il passaggio dal Msi ad An non fu così?
PIERO IGNAZI — Le parolette in favore dell’antifascismo che Fini disse a Fiuggi nel 1995, pur importanti, in realtà le aveva già pronunciate in termini simili Almirante nella campagna elettorale del 1972. Il problema è capire quanto siano penetrate nella cultura politica del partito. I sondaggi tra quadri e militanti compiuti in occasione di tre diverse assise – del Msi nel 1990, di An nel 1995 e nel 1998 – mostrano che circa due terzi degli interpellati, con poche variazioni tra i vari appuntamenti, davano un giudizio positivo del fascismo, pur addebitandogli alcuni errori. Al di là delle parola rimaneva quindi immutato il Dna della cultura politica originaria, che considerava il regime mussoliniano migliore di quello attuale. Non abbiamo dati empirici più recenti, ma è indubbio che FdI si richiama alla storia del neofascismo e non ha operato alcuna cesura rispetto a quella tradizione.

Rimane da sciogliere un nodo identitario?
PIERO IGNAZI — Sì. Il problema del rapporto con il fascismo rimane centrale, perché non c’è stato alcun momento drammatico che imponesse all’estrema destra, com’è accaduto al Pci-Pds, di mutare la propria cultura politica, che è un’operazione assai faticosa e dolorosa. I dirigenti di FdI non possono sperare di cavarsela condannando, com’è ovvio, le leggi razziali, quando poi magari bollano George Soros come un «usuraio», con un riferimento scoperto alle sue origini ebraiche. Del resto Vassallo documenta nel suo libro una sorta di passaggio del testimone, da una generazione all’altra, che non ha comportato alcuna frattura. Fini in una certa fase aveva tentato un cambiamento netto, ma gli attuali dirigenti di FdI, quasi tutti provenienti dal Msi e da An, non lo seguirono.
SALVATORE VASSALLO — Bisogna capire che cosa s’intende per fascismo. Una definizione aderente alla Costituzione considera fascista chi si proclama tale o agisce per incrinare i valori che sono alla base della convivenza democratica. Un’altra definizione, piuttosto diffusa, reputa fascista chi, rievocando elementi associabili alla storia del Msi, assume posizioni irritanti o deplorevoli per una sensibilità di sinistra. Il termine «fascista» così diventa un insulto riservato agli avversari politici da un antifascismo che presenta a sua volta tratti illiberali. Infatti la democrazia liberale consiste nell’accettare la possibilità che qualcuno proponga anche idee spregevoli, purché siano compatibili con i principi di fondo dell’ordinamento, nel nostro caso della Costituzione repubblicana.



  • Insomma anche l’antifascismo ha le sue contraddizioni?
    SALVATORE VASSALLO — Se Meloni e FdI, secondo certi osservatori, sono fascisti sulla base di una definizione astorica ed extracostituzionale di questo concetto, come si fa a chiedere loro di dichiararsi antifascisti? È molto problematico. C’è una qualche formula specifica che dovrebbero pronunciare per dimostrare la loro adesione all’antifascismo? Come si potrebbe valutarne la sincerità? Chi dovrebbe farlo?

    Posta così la questione appare insolubile.
    SALVATORE VASSALLO — Io penso che sia già un grosso passo avanti, per la vita pubblica italiana, che le due forze politiche con radici ideologiche illiberali, intrappolate a lungo da identità improponibili, siano state indotte dalla forza della democrazia liberale e dai suoi vincoli a cambiare nel corso del tempo e a sposare le regole fissate dalla Costituzione repubblicana. Se i dirigenti di FdI non si proclamano antifascisti è perché ritengono che nessuna dichiarazione in tal senso sarebbe accettabile per le componenti illiberali dell’antifascismo.
    PIERO IGNAZI — Ma è la Costituzione stessa ad essere profondamente antifascista. E non si può certo sostenere che essa presenti dei tratti illiberali.
    SALVATORE VASSALLO — La Costituzione è antifascista in due sensi: perché vieta la ricostituzione del Partito fascista e perché afferma regole e principi che impediscono il ritorno a un regime autoritario. Il punto importante è che tutti aderiscano ai valori costituzionali: chi li assimila è di per sé antifascista, ma non è sempre vero il contrario. Ci possono essere movimenti antifascisti che non sposano in pieno la democrazia liberale, per esempio che non riconoscono il diritto di esprimersi a posizioni che considerano impresentabili.
    PIERO IGNAZI — La ragione per cui la Costituzione è antifascista consiste nel fatto che è stata scritta da coloro che avevano combattuto il regime di Benito Mussolini e che quindi disegnarono un ordinamento alternativo a quello del ventennio, in netta contrapposizione ad esso sotto ogni profilo. Ciò va ben al di là della norma che vieta la ricostituzione del Partito fascista, rimasta sempre inapplicata nonostante il Msi fosse indubbiamente una forza neofascista.
    SALVATORE VASSALLO — Dunque chi aderisce alle regole della democrazia liberale di fatto si può considerare antifascista secondo il disegno dei padri costituenti?
    PIERO IGNAZI — L’adesione può essere strumentale. Lo è stata per lungo tempo anche quella dei comunisti, che sognavano l’ora X della rivoluzione.
    SALVATORE VASSALLO — Ma così la prova della conversione democratica dei postmissini diventa diabolica, cioè non può essere data. Nella percezione di certi antifascisti i dirigenti di Fratelli d’Italia, essendo stati socializzati alla politica dentro il Msi o An, sono per definizione fascisti, qualsiasi cosa dicano.
    PIERO IGNAZI — No, ci sono persone provenienti da quel mondo che hanno rotto con l’identità neofascista. Ma il fascismo è stato un’ideologia potente, non se ne esce con tanta facilità.
    SALVATORE VASSALLO — Bisogna dunque ritenere, sulla base di indizi frammentari, che anche la terza generazione della Fiamma, che viene dopo la svolta di Fiuggi e ha operato in prevalenza dentro il Popolo della libertà, abbia mantenuto un’ideologia fascista?
    PIERO IGNAZI — A me gli indizi, più che frammentari, appaiono significativi e rivelatori. Quando esponenti periferici di FdI si richiamano apertamente al fascismo, ci rendiamo conto che persiste una identità di lungo periodo della quale quel partito, pur tra vari adattamenti, non si è ancora liberato.
    ROBERTO CHIARINI — FdI ha ottenuto il 26 per cento alle politiche, i sondaggi lo danno intorno al 30. Nessuno dubita che il suo nucleo originario forte abbia mantenuto legami con il neofascismo, ma la questione importante è verificare quanto tale richiamo al passato sia cogente sul piano dei comportamenti e delle scelte. Il presidenzialismo originario del Msi era la copertura di un’ambizione sostanzialmente dittatoriale. Non mi pare si possa dire altrettanto dell’analoga proposta di Meloni, per quanto discutibile sul piano dell’ingegneria costituzionale. Ma quando una forza si viene nel tempo svuotando della sua carica antisistema, pur conservando un richiamo identitario che ne cementa la coesione, credo che sia un passaggio da salutare come un’importante conquista.

    I riferimenti al fascismo sono puro folclore?
    ROBERTO CHIARINI — Mi sembra che il legame residuo sia più psicologico ed esistenziale che politico e programmatico. Non comporta scelte concrete e impegnative che ledano il vincolo di lealtà verso la democrazia. Lo stesso vale per gli eredi del Pci: in occasione del centenario avete sentito qualcuno, nel mondo postcomunista, dire che la scissione di Livorno fu una grande sciagura per la sinistra italiana? Ci sono in gioco sentimenti identitari che è giusto rispettare. Quindi io non ho difficoltà a riconoscere che FdI abbia conservato residui della sua identità neofascista, ma non credo affatto che aspiri a una svolta dittatoriale come quella che immaginava il Msi ancora negli anni Settanta, quando guardava con simpatia a regimi liberticidi come quello dei colonnelli greci. La consuetudine con il gioco democratico ha eroso le tendenze autoritarie.
    PIERO IGNAZI — Su questo sono d’accordo. Ricordo un sondaggio che effettuai, per le mie ricerche sul Msi, al congresso missino del 1987. Rimasi per primo sorpreso del fatto che la visione stereotipata del fascista veniva smentita dalla sensibilità che il corpo del partito mostrava per i diritti civili. Scrissi allora che c’era stata una metabolizzazione inconscia di alcuni aspetti della democrazia da parte dei quadri del Msi dopo quarant’anni di attività in un sistema rappresentativo. La base missina conservava la sua visione del mondo neofascista, ma era stata contaminata dai germi della democrazia liberale.

    Quel processo non è andato abbastanza avanti?
    PIERO IGNAZI — Sicuramente è proseguito, ma resta da sciogliere il nodo dell’identità. In certi segnali nostalgici riaffiora l’appartenenza a un mondo con il quale ancora non si vogliono rompere i ponti.

    Quindi è lecito dubitare dell’affidabilità democratica di FdI?
    PIERO IGNAZI — In una situazione di pace sociale, senza crisi interne importanti, non ho timori per la tenuta della democrazia. Ma se dovessero verificarsi forti tensioni, la mancanza di un sostrato ideologico democratico nel maggiore partito di governo potrebbe dare luogo a problemi. Certo, c’è il vincolo europeo, ma gli esempi dell’Ungheria e della Polonia dimostrano che potrebbe rivelarsi insufficiente a trattenere pulsioni illiberali. Tuttavia, anche se il primo provvedimento del governo è stato quello contro i rave party, di chiara marca autoritaria, non vedo pericoli immediati.
    SALVATORE VASSALLO — Noi per il libro abbiamo fatto molte interviste approfondite con dirigenti di FdI e non abbiamo riscontrato la convinzione che il fascismo abbia fatto anche cose buone. Però sono sicuro che chi ha le preoccupazioni espresse da Ignazi non sarebbe stato persuaso della conversione democratica di FdI neanche se una rilevazione ad ampio raggio avesse dimostrato che tra i quadri di quel partito il legame con il fascismo sia notevolmente allentato.

    Perché?
    SALVATORE VASSALLO — Perché nella cultura politica italiana persiste una reciproca diffidenza tra schieramenti avversi ereditata dalla prima Repubblica. Io invece ritengo che, come politologi, più che le intenzioni inespresse o i riflessi inconsci dei partiti, dobbiamo considerare la struttura delle opportunità dentro cui si muovono. Il gruppo dirigente di FdI è fatto da politici di professione, che si comportano razionalmente in relazione alle componenti della società italiana che sono chiamati a rappresentare. La radicalizzazione delle posizioni di Meloni negli anni dal 2014 al 2018 aveva l’obiettivo di attrarre su FdI gli elettori che si erano spostati verso la Lega di Matteo Salvini: in quella fase assunse posizioni che, per usare un eufemismo, segnalavano un’imperfetta convinzione liberaldemocratica.

    Adesso la situazione è cambiata?
    SALVATORE VASSALLO — Oggi i vincoli elettorali e istituzionali vanno in tutt’altra direzione. FdI ha ottenuto il consenso dei cittadini che hanno sempre votato per il centrodestra e può mantenerlo se esprime posizioni compatibili con le attese di questo elettorato. Inoltre, avendo assunto un ruolo di governo, gode di opportunità che lo spingeranno sempre di più a integrarsi nel sistema istituzionale italiano ed europeo, come si è già visto in questi mesi. Quindi siamo nelle condizioni di affermare che i pericoli per la democrazia sono molto limitati o pressoché inesistenti. In caso di crisi – l’ipotesi che faceva Ignazi – non si può escludere che Giorgia Meloni possa essere tentata di agire al di fuori dei binari della Costituzione, ma francamente non mi sembra un’eventualità probabile.
    ROBERTO CHIARINI — È evidente che nulla è scontato o acquisito. In una situazione di emergenza possono manifestarsi tentazioni pericolose. Ma non bisogna esagerare: è bastato un piccolo incidente all’entrata di una scuola a Firenze, senza gravi conseguenze, per fare parlare addirittura di nuovo squadrismo. Io non credo che in FdI ci sia una doppiezza di fondo o che la sua adesione alla democrazia sia un adattamento tattico. Penso piuttosto che il suo percorso evolutivo sia destinato a proseguire.