La Stampa, 25 marzo 2023
L’eccidio di Carretta
Hanno fatto bene a ricordare a Giorgia Meloni che i 335 delle Fosse Ardeatine non erano semplicemente italiani assassinati in quanto italiani, ma ebrei in quanto ebrei, antifascisti in quanto antifascisti, militari in quanto militari disubbidienti, e detenuti comuni per fare numero, e che alcuni italiani, in quanto fascisti, collaborarono all’eccidio. Fra di loro il questore Pietro Caruso e mi è tornato alla memoria in giorno in cui, nella Roma liberata, doveva aprirsi il processo a suo carico. Era il 18 settembre 1944. Una folla disperata e furente assediava il Palazzaccio e, quando seppe del rinvio dell’udienza, invase l’aula del tribunale. Lì c’era il direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, testimone contro Caruso, e sulla cui rettitudine e collaborazione alla Resistenza aveva garantito Pietro Nenni, nientemeno. Una donna gli si piantò davanti e lo accusò della morte del marito. La folla gli si fece addosso. I carabinieri e i soldati inglesi cercarono vanamente di proteggerlo. Carretta fu trascinato fuori e cominciò il linciaggio. Già mezzo morto, venne adagiato sui binari perché il tram facesse il resto. Il tranviere si rifiutò, e scampò a medesima sorte esibendo la tessera del Pci. Allora Carretta fu scaraventato nel Tevere ma, siccome ancora boccheggiava, dei bagnanti presero un paio di gozzi e lo raggiunsero per finirlo a colpi di remi. Infine ne appesero il cadavere a testa in giù a Regina Coeli. Ci sono anche le immagini di un giovane Luchino Visconti, che girava un documentario dal titolo “Giorni di gloria”. Le immagini del linciaggio furono scartate. Giusto per ricordare che tempi furono quelli