il Giornale, 25 marzo 2023
Intervista a Teresa Cremisi
Da un’intervista a Teresa Cremisi si esce ridimensionati. Il suo sguardo sul reale è quello del gatto sulla preda: understatement sempre («carino», dice se deve sottolineare la pervicace idiozia di un certo atteggiamento), compiacenza mai. In questi giorni porta in libreria l’edizione italiana – definizione più che appropriata: è una edizione ripensata per l’Italia, con tagli e inserimenti ad hoc – di Cronache dal disordine (La nave di Teseo, pagg. 320, euro 20, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), la raccolta di ritratti del nostro tempo scritti per «Ma tasse de café», la rubrica che tiene dal 2018 sul settimanale francese Le Journal du Dimanche. Il mondo classico e quello ambientalista, il machismo e il femminismo da salotto, i movimenti e i cellulari, Elon Musk e Greta Thunberg, Proust e il politicamente corretto condividono lo spazio di un volume, accomunati dalla prospettiva scomoda in cui li piazza l’autrice: ridimensionati, anch’essi, per mostrare al lettore che quand’anche ci fosse al mondo una strategia, non resisterebbe a lungo.
Che «la signora dell’editoria francese», come la chiamano, al comando per quasi mezzo secolo tra Garzanti, Flammarion, Gallimard, Adelphi di cui ora è presidente, abbia una particolare fascinazione per il disordine lo dimostrano gli scrittori che ha lanciato – Milan Kundera, Yasmina Reza o Catherine Millet, passando per Claudio Magris o Michel Houellebecq, per dirne alcuni – di cui è, più che madrina, amica, confidente, supporter. Ma anche la sua famosa e bizzarra collezione di titoli di cronaca minore di cui uno, Strangolata con il posacenere divenne il titolo del suo esordio come saggista presso Bompiani, nel 1974, sotto l’egida di Umberto Eco.
Prima di tutto: perché disordine?
«È la prima parola che mi è venuta in mente quando ho visto accumularsi questi oltre 250 pezzi: una parola educata per dire caos, bordello, come se fossi un’inviata speciale in un mondo che una persona curiosa contempla, secondo il suo umore, con paura, divertimento, scherno. Una specie di caos universale di cui è difficile dare le linee conduttrici. Il titolo si è imposto: non c’è stato un tempo dell’ordine, mai. I tasselli si sono accumulati e io sono incapace di ordinarli in un mosaico coerente».
Un filo conduttore potrebbe essere quello del tempo: il mondo è o non è più lo stesso?
«Quando ho scelto cento di questi pezzi per farne un libro italiano ho eliminato quelli legati strettamente all’attualità francese o i nomi che non potevano essere interessanti in Italia ed eliminando è venuto fuori qualcosa che ho anche adattato: ho iniziato con testi storici, quindi si ritrovano i temi eterni dell’uomo sensato che assiste al caos e non è capace né di trarre lezione dal passato né di prevedere il futuro. Per questo comincio e finisco con i classici, perché sono testimoni lontani che ci dicono sempre la stessa cosa».
E in mezzo ha messo i «tempi moderni».
«Una specie di serie di tempi moderni, cioè quelle cose, dai controlli aerei infernali alla toponomastica dei musei, che appaiono nella nostra vita e la condizionano costantemente. Le sopportiamo, finché due generazioni dopo qualcosa di ancora più costrittivo apparirà. Sono segni di inciviltà. Allucinanti. Mi ritrovo in Chaplin, quindi, in Tati, che vedono, subiscono, qualche volta ridono, qualche volta piangono. Il mio discorso non è era meglio prima: tanto è vero che Tucidide racconta cose altrettanto orrende. Prima era altrettanto caotico: però al travel retail nessuno aveva ancora pensato».
E la Cina, ci preoccupa?
«Ah, in quel pezzo si parla di noi, più che di Cina. La Cina mi preoccupa è una frase di Proust nascosta in mezzo a milioni di sue frasi meravigliose ed è una frase mondana: quando qualcuno piglia un’aria preoccupata, magari durante una cena imbandita gradevole, e dice ah, quello che sta succedendo in Siberia è terribile, oppure ah l’Oriente non finirà mai di stupirci, ovvero mondanamente fa sentire che il destino del mondo è un suo problema personale. La gente ormai nuota in un individualismo sfrenato: si è autoconvinta che il suo parere sulle marmellate d’arancia o su che cosa succederà nell’incontro tra Putin e Xi sia importante. Questa è davvero una cosa carina dell’essere umano, molieresca. Arance amare o fragole? È veramente importante».
E allora machismo o gender neutral?
«Sono infastidita: non dal fatto che ci sia fluidità di generi, che ritengo una cosa della vita, ma dal linguaggio sorvegliante e perbenista, che in certi casi si trasforma in ossessione da neurodeliri. Se un mio autore scrivesse un romanzo politicamente scorretto? Me ne infischierei: ho fatto tutta la vita così e non cambierò certo alla mia età. Altrimenti non c’è più arte, non c’è più pensiero. Certo, sono anche felice che siano scomparse le donne mezze nude e sdraiate su automobili rosse o avvinghiate a un parabrezza per spirito mercantile. La moda è cambiata e in questo senso applaudo: sapone e detersivo usati da donne venivano promossi con donne nude sopra: una idea cretina che poteva venire solo a pubblicitari maschi».
Connettersi o disconnettersi?
«Impossibile scegliere. Se uno si disconnette davvero, diventa un analfabeta dell’attualità, come chi cent’anni fa non sapeva leggere o scrivere. Bisogna allo stesso tempo connettersi, perché la vita passa di lì, e disconnettersi, perché diventiamo polvere in questa frenetica comunicazione digitale. Bisogna esserci, ma proteggersi».
Lei come si comporta?
«Io trovo fantastico poter controllare ciò che scrivo e che dico: un tempo ci sarebbero volute ore per verificare la data di nascita di qualcuno che cito. Detto questo mi sono disconnessa dai social, perché rappresentano una perdita di tempo spaventosa. Non guardo nemmeno quelli degli altri. Guardo i giornali, internet, leggo molto e vado sui siti di informazione di tutti i Paesi di cui parlo la lingua. Non parlo russo, purtroppo».
Così però si perde l’instant life, gli scandali del giorno, il gossip...
«Se lo scandalo diventa importante, prima o poi appare anche altrove e arriva lo stesso, ma essere in prima linea su Twitter è mortifero, almeno per chi vuole conservare la capacità di camminare, leggere, divertirsi, parlare con i bambini. Abbiamo tutta una generazione ossessionata. Ho appena scritto un piccolo testo, su questo, la riflessione di un bebè nel suo passeggino: non vede l’ora di crescere per afferrare quel rettangolo luminoso che vede in mano agli adulti. Sua madre urlerà, ma lui sarà così concentrato che non potrà sentirla».