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 2023  marzo 25 Sabato calendario

Intervista a Fulvio Lucisano

Fulvio Lucisano, dove ha visto i primi film? 
«Al cinema Eden, in piazza Cola di Rienzo, a Roma. Con una lira se ne potevano vedere due. In sala c’erano spesso acquattati dei pederasti, uno di questi una volta provò ad abbindolarmi, ma io me la svignai». 
Quanti anni aveva? 
«Dodici. Quindi era all’inizio della guerra, io sono del 1928». 
E perché andava proprio all’Eden? 
«C’era una bella sala in legno, e poi perché offriva la seconda e terza visione. Al Barberini l’ingresso costava già sette lire».
Che film andava a vedere? 
«Soprattutto quelli del terrore. E le commedie. Nel 1944 arrivarono i primi film americani, mi piaceva molto l’attrice Deanna Durbin». 
Com’è entrato poi nel mondo del cinema? 
«Grazie a Giulio Andreotti». 
Cioè? 
«Mi ero iscritto alla Democrazia cristiana di Prati, di cui divenni il delegato dei giovani. Il presidente era Andreotti. Al congresso del partito del 1949 a Venezia mi presentò Cesare Lo Monaco, che lui aveva appena nominato direttore generale dell’Istituto Luce». 
Aveva espresso il desiderio di entrare nell’ambiente? 
«Sì, così cominciai a frequentare l’Istituto. Il primo lavoro fu confezionare il cinegiornale per il Sudamerica». 
«Ventuno». 
Andreotti amava il cinema. 
«Nel governo aveva la delega agli spettacoli. Fece approvare una legge di sostegno alla cinematografia, che incentiva la produzione italiana». 
Però fu anche un censore. 
«Sì, la Dc era forte nella censura. 
( Ride).I più però si autocensuravano. Oggi suona tutto anacronistico». 
Quanti film ha prodotto e distribuito in carriera? 
«Circa seicento». 
E qual è stato il campione d’incasso? 
«Sono stati due. Ricomincio da tre,di Massimo Troisi, eNotte prima degli esami,di Fausto Brizzi». 
Come definirebbe la sua idea di cinema? 
«Popolare». 
I suoi incoraggiarono la sua vocazione? 
«Al contrario. Papà voleva che facessi l’avvocato. Mi sono laureato in legge, 
ma non ho mai esercitato». 
E sua madre? 
«Mia madre, Iole Contini, morì che avevo cinque anni, per un tumore». 
Ne ha memoria? 
«Sì, anche se poi da grande mi ha dato fastidio ritrovare alcune sue lettere. In una, inviata a mio padre, si raccomandava di stare “attento a Fulvio, che è ribelle”». 
Non era vero? 
«Ero un bambino!». 
Suo padre si risposò? 
«Sì, tre anni dopo, con Adalgisa, i cui parenti erano tutti fascisti. Ebbe da lei altri due figli». 
E come andò con la matrigna? 
«Così così. A sedici anni me ne sono andato via di casa». 
«Quando arrivarono gli americani a Roma mi aggregai a loro con tanto di divisa. Scoprii la carne in scatola». 
E quando finì? 
«Mio padre mi rintracciò ad Ansedonia attraverso l’ambasciatore americano. Tornai a Roma, anche perché dovevo preparare gli esami di riparazione, tra cui latino». 
Lei passa per lo scopritore di Troisi al cinema. 
«Me lo fece conoscere Mauro Berardi, il produttore cinematografico. Troisi si esibiva al Teatro Tenda con Lello Arena ed Enzo Decaro». 
Ebbe subito la convinzione che potesse funzionare anche al cinema? 
«Sì, il problema era rappresentato dalla lingua di Massimo. Ricordo che ne parlai casualmente con il mio agente in Piemonte, che mi gelò: “Non lo capisco neanch’io che sono napoletano”». 
Come risolveste? 
«Mi venne l’idea di fargli ripetere le cose più volte, “se le ripeti tre volte vedrai che ti capiranno tutti”, gli spiegai. Alla fine quelle ripetizioni divennero un marchio di fabbrica». 
Com’era Troisi? 
«Una persona molto semplice, gradevole». 
Era comunque una scommessa? 
«Totalmente. Si temeva che al Nord nessuno lo avrebbe compreso. Poi ci trattavano come paria, perché due settimane prima, nel febbraio 1981, era uscito Bianco rosso e verdone, che aveva tutti gli occhi addosso». 
Quanto ha incassato “Ricomincio da tre”? 
«Quindici miliardi di lire». 
L’altra sua scoperta è stata Francesca Archibugi. 
«Anche lei bravissima. Me la segnalò Leo Pescarolo. Il grande cocomeropoteva vincere l’Oscar. Francesca mi regalò un cane, che poi è stato con me per anni». 
Avete fatto insieme un solo film? 
«No, due, l’altro èCon gli occhi chiusi.Poi aveva un contratto e non l’ha rispettato». 
Perché? 
«Forse voleva essere più libera, non voleva interferenze». 
Un produttore interferisce? 
«Per forza, ci mette i soldi, vuol dire la sua». 
E come finì? 
«Siamo andati in tribunale e abbiamo vinto noi». 
Lei è stato molto amico di Alberto Sordi. 
«Me lo presentò Gianni Hecht, sarà stato il 1952 o 1953». 
Dove vi vedevate? 
«Al ristorante, a San Cosimato. 
Cercavo di evitare di andare a casa sua». 
«Mi metteva tristezza. C’era sempre sua sorella, il fratello ingegnere che gli faceva da agente, ‘sto cane che metteva il muso fuori dal cancello». 
Chi pagava al ristorante? 
«Pagavo io!» 
Come nacque “Il Tassinaro”? 
«Convincemmo Andreotti e Fellini a partecipare. Sordi era intransigente su certe cose, pretendeva che ci fosse anche il figlio del musicista Piero Piccioni, a me pareva una sequenza troppo lunga: discutemmo». 
Chi la spuntò? 
«Io andavo a rivedere i film al cinema, e mi accorsi che non funzionava, così dopo tre settimane feci una cosa che oggi sarebbe impossibile: tagliai due volte il film». 
Poi giraste il sequel a New York? 
«Sordi era popolarissimo anche in America, la gente lo fermava mentre passeggiava sulla Fifth Avenue. 
Trascorremmo il Capodanno al Caffè Roma e lì venne a salutarlo Andy Warhol». 
Quanto costa oggi fare un film? 
«Servono almeno tre milioni e mezzo di euro». 
I gusti sono cambiati rispetto agli anni d’oro? 
«La gente oggi è meno naïf. Ma alla fine, come sempre, chiede di essere indirizzata. E di divertirsi». 
E lei si diverte ancora? 
«Io vengo ancora ogni giorno in ufficio». 
Ha 94 anni, potrebbe riposarsi. 
«Perché? Questa è sempre stata la mia vita».