la Repubblica, 25 marzo 2023
Intervista a Massimo Cacciari
Non ci sta Massimo Cacciari a parlare del degrado del linguaggio politico attuale.
Nemico dei luoghi comuni, sbuffa, «ma quale degrado, questa è la classica accusa rivolta dall’intellighenzia». L’intervista telefonica avviene a ridosso di una lezione che il filosofo tiene oggi alla Biblioteca delle Oblate a Firenze incentrata sulla comunicazione politica dei nostri giorni, un’anteprima del festival Parole in cammino.
Ammetterà che il livello a volte è scadente?
«Ma non per questo dobbiamo fare gli snob. Il linguaggio politico è demagogico nella sua essenza, il suo fine consiste nel guidare il popolo e nel convincerlo con ogni mezzo della bontà di determinate idee e prospettive. La pretesa che possa avvicinarsi al linguaggio “scientifico” è folle. Lo scienziato deve cercare di rapportarsi con l’ essere, il linguaggio politico con ildover essere».
Ci saranno però dei limiti alla demagogia?
«Quandoil dover essere prescindeda ogni analisi concreta della situazione di fatto, il linguaggio diventa pura menzogna.Se cerco diconvincere ildemos conpromesse prive di fondamentochenon tengonoconto di una realtà effettuale, il linguaggio politico si presenta in forme particolarmente degradate, diventa purapropaganda».
E oggi le sembra che i politici abbiano cura della realtà fattuale?
«Il linguaggio generale è ormai vaniloquio, ma di che cosa ci stupiamo? Il degrado non è solo del politico, è esteso. Ha vinto il linguaggio dei social che prescinde da ogni analisi, da ogni critica, da ogni giudizio. È in atto un impoverimento tremendo dei nostri mezzi di comunicazione. I politici ricorrono a una comunicazione frettolosa usando i mezzi che hanno a disposizione, mica vivono su Marte!».
Ci sono vie d’uscita?
«L’unica cosa che possiamo fare è cercare di resistere, avere consapevolezza del contesto.
Come le dicevo sarebbe una posizione snobistica, per non dire ascetica, rifiutare i social o smettere di parlare attraverso i giornali o la televisione. Nessuno di noi può essere superiore al suo mondo».
I social hanno alzato il tasso di emotività. Cresce il bisogno di un nemico?
«In politica il linguaggio del nemico non è una novità. La politica ha sempre finto ilbellumricorrendo a un linguaggio pseudo-militare, ma oggi è sparita la capacità di critica. Nessuno pensa più di voler conoscere il suo nemico, di comprenderne il linguaggio. Il giudizio ha bisogno di tempo, di distanza critica. Oggi si consuma tutto nell’immediato. La critica è un’attitudine scomparsa dai giornali e anche dalla scuola».
Che cosa non le piace nella scuola?
«È travolta da un’ansia di prestazione, preoccupata diformare al lavoro, presa da una smania produttivistica. Quello che conta oggi è arrivare subito al successo, convincere rapidamente l’interlocutore, non importa se ricorrendo a fake news. Non conta pensare, ragionare, analizzare le cause, conta schierarsi più in fretta possibile. Siamo dominati dalla fretta. Anche i politici sono merce col timbro di scadenza».
Resistere vuol dire rallentare?
«Prendersi il proprio tempo,tornare a ragionare, cercare di comprendere le ragioni dell’altro, il linguaggio di chi non la pensa come noi. Se fai questo, probabilmente sarai un solitario, forse non diventerai mai un leader politico, ma che problema è?».
È questa la posizione dell’intellettuale?
«Penso che dovrebbe esserlo. È la posizione di colui che non sente come proprio dovere adeguarsi al proprio tempo, di colui che non si preoccupa unicamente di rispecchiare la realtà, di colui che non vuole essere a tutti i costi contemporaneo».
Coltivando la speranza di diventare postumo?
«Se un intellettuale non nutre speranza di diventare postumo che cosa ci sta a fare!».
Si resiste anche difendendo valori costituzionali come l’antifascismo?
«L’antifascismo implica un fascismo che non mi pare sia all’orizzonte. Le pare che un ministro che cita frasi di Mussolini possa far paura? Esiste semmai il pericolo dello sfascio di una democrazia rappresentativa alla quale subentrerà chissà cosa, ma non certo forme autoritarie di tipo novecentesco».
E non le sembra uno scenario temibile?
«Temo di più l’omologazione di massa priva di prospettive critiche, alla quale ci si adegua senza bisogno di censura».
Il populismo si nutre di questo habitat?
«Populismo è un’altra parola abusatissima. Elementi populisti e demagogici sono immanenti in ogni espressione politica. È una tendenza di tutta la politica contemporanea quella a parlareper slogan. Usando un linguaggio in cui prevale l’elemento della promessa».
I politici di oggi esagerano in retorica?
«L’osservazione è semmai un’altra. Nella prima Repubblica l’elemento demagogico si combinava con un elemento fortemente ideologico.
L’elemento ideologico crea comunità, un ethos comune, ha una base solida. Da quando le ideologie sono statecompletamente smantellate, a partire dagli anni ’80-’90, è rimasta solo la sovrastruttura demagogico-populistica».
Morte le ideologie contano i programmi?
«Ma quali programmi? I programmi servono ad aggiustare i termosifoni, li fanno i tecnici. Non esiste una politica che possa definirsi in chiave semplicemente programmatica. Oggi domina la chiacchiera senza ideologia».
Dunque senza valori?
«O i valori hanno una base ideologica forte, oppure sono chiacchiere».
E i valori della famiglia tradizionale rivendicati dalla destra?
«Ma dai! La famiglia nel nostro sistema socio-economico è la vittima designata (ride, ndr)».
Allora l’uguaglianza, che Bobbio considerava valore cardine della sinistra?
«È un principio generale in sé contraddittorio. I rivoluzionari francesi capendo che libertà e uguaglianza stanno insieme come capra e cavoli hanno avuto l’accortezza di coniugarle con la fratellanza».
Ci saranno soluzioni?
«I politici dovrebbero dirci come oggi si può realizzare un programma politico credibile.
Come si può realizzare una scuola uguale per tutti o una sanità uguale per tutti? I cosiddetti valori se non vengono normati rimangono pure chiacchiere. Ma oggi i margini per definire dei programmi attuativi sono probabilmente inesistenti.
Questa impotenza è il dramma».
Quindi?
«Siamo costretti a vivere nel territorio delle chiacchiere».